Contributi

La bellezza che ammonisce ed interroga: l’Entrata di Cristo a Bruxelles di Ensor e il ruolo del formatore

di Francesco Varanini 15 Febbraio 2013

Il titolo del libro di Piero Trupia da cui prendo spunto è impegnativo: Perché è bello ciò che è bello. La nuova semantica dell’arte figurativa.
Potrebbe far pensare alla solita pretenziosa lettura degli interpreti legittimati, dei critici e degli esperti che pretendono di essere gli unici a capire, a comprendere l’arte. E quindi si sentono in diritto di calare dall’alto i loro illuminati giudizi. Conosciamo tanto bene questi critici che è inutile farne i nomi. E sappiamo anche che questi critici non sono che un caso particolare di un tipo più generale: come questi critici d’arte, agiscono critici letterari e critici cinematografici.
Ma tranquilli, Piero Trupia scrive proprio per mostrare la vacuità e l’inganno insite nel giudizio di questi critici.
Ci interessa in modo particolare la chiave autobiografica. Trupia si qualifica come persona colta, ma lontana da ogni professionismo: è un amatore d’arte che, come lui stesso dice, non non è stato aiutato dalla scuola, dai libri di testo e dai critici a diventare conoscitore. Non ha soggezione nei confronti dei soliti noti, dei pretesi esperti. E’ deluso dal loro vuoto parlare.
La prosa di questi critici, dice Trupia, è malamente filosofeggiante; è la prosa dell’etichetta posteriore delle bottiglie di vino, valida per qualsiasi vino. Si studia e s’insegna la storia delle cose e non le cose. Non si tratta di veri critici, ma in realtà di storici dell’arte, storici che sovrappongono alle opere le loro idee. Si tratta di storici dell’arte che sono considerati e si considerano, ipso facto, ermeneuti dell’arte, come se gli storici della medicina, soltanto in virtù di questa preparazione, curassero i malati.
Questo smascheramento della critica fumosa, della prosopopea fondata su idee preconcette, che prevalgono sull’osservazione dell’opera, è di grande interesse. Queste letture imposte d’autorità schiacciano le nostre letture, le nostre interpretazioni.
Ma Trupia non si ferma qui. Alla pars destruens segue la pars construens. Chiamando in causa Platone e Tommaso d’Aquino, Trupia ci parla di ciò che è bello. Il bello non è, semplicemente ‘ciò che piace’. “La bellezza è lo splendore della verità”. “L’opera d’arte, nel suo significato generale, è la verità pura e di per sé splendente”. E “il significato particolare della singola opera d’arte è una verità individuata, insita in una specifica cosa del mondo”: così la bellezza sta anche in oggetti triviali, come, nelle tele di Van Gogh, gli scarponi da contadino o le patate.
Dunque, ci dice Trupia, la Bellezza non è soggettiva; è, all’opposto, universale. Per coglierla però, occorre una competenza linguistica, prima generale, e poi relativa in particolare al linguaggio dell’arte.
Trupia propone quindi un modo di osservare l’opera d’arte, distante dall’approccio storico e filologico normalmente usato dai soliti critici, e si fonda invece su strumenti di lettura e criteri interpretativi che ogni amatore può applicare, personalmente.
E quindi, con la sua strumentazione, Trupia illustra e interpreta trentanove opere, dal medioevo fino ai nostri giorni.

Saper vedere
La via che Trupia ci propone è ardua, impegnativa. Ci dice che la bellezza splende di per sé. Ci dice che i critici e i professori e i recensori di cui magari ci fidiamo non hanno in realtà capito nulla. Ci dice, ancora, che possiamo comprendere l’opera d’arte, ma bisogna apprendere come fare.
Considero giusto questo cammino, anche se forse ho più dubbi di Trupia. Per quanto la bellezza splenda di per sé, per quanto possa prepararmi ad intendere la bellezza che splende di per sé, dubito di riuscirci.
Per spiegare cosa intendo, devo chiamare in causa Matteo Marangoni. E’ proprio Trupia a farmelo venire in mente, quando -probabilmente a ragione- critica il modo in cui Marangoni giudica Caravaggio. Marangoni era uno studioso d’arte fuori dai ranghi. Era stato prima musicista, antropologo – così come Trupia prima di essere amatore d’arte è matematico, politologo, filosofo del linguaggio. Marangoni provava -come Trupia- avversione per il metodo filologico della storia dell’arte, alla quale sie era avvicinato esercitando l’occhio, vedendo e rivedendo le opere nei grandi musei d’Europa. Riprendo così in mano Saper vedere. In questo libro, scritto nel 1933, Marangoni se la prende con i critici di professione. In modo non troppo dissimile da Trupia sostiene che “l’arte è cosa da iniziati”, ma aggiunge subito che “si può avere la propria iniziazione”.
Ciò che mi interessa qui di Saper vedere non sono le tesi che vi trovo esposte, ciò che mi interessa è l’invito a dubitare. Possiamo essere davvero capaci di intendere il bello? Come si può cogliere lo splendore senza prendere abbagli? Non siamo comunque condizionati dall’eccessiva vicinanza -storica o culturale- o dall’eccessiva lontananza? Marangoni ci ricorda che Giorgio Vasari, pur così acuto, non capiva la pittura veneziana: sottovalutava Tiziano, accusava il Tintoretto di “dipingere a caso, senza disegno”.
Ma l’invito di Trupia è tanto stimolante che non posso fare a meno di raccoglierlo. Mi chiedo -e vorrei che ogni lettore si chiedesse- in quale opera d’arte trovo una speciale, splendente bellezza? Provo a dirlo – non usando con precisione gli strumenti proposti da Trupia, ma in un modo che mi è consono: attraverso una narrazione.

Joyeuse entrée
Quale opera d’arte ritengo bella?
L’Entrée du Christ à Bruxelles, opera dipinta nel 1888 da James Ensor, è un’allegoria teatrale, grottesca: nel rosso steso à plat sulla grande tela -il colore delle bandiere e degli striscioni-, nelle scritte deliranti che inneggiano al Messia, in quei volti come maschere di disperazione, leggo la morte dei sogni, il timore del domani che incombe nel futuro di ogni rivoluzione.

 

Il potere politico, come si è espresso nel Ventesimo Secolo, e come possiamo conoscerlo oggi, sta tutto qui.
Lo sguardo sardonico e delirante di Ensor è lontanissimo dall’atteggiamento agiografico e nutrito di certezze ideologiche dei muralisti messicani -Rivera, Siqueiros, Orozco. Ma a ben guardare proprio dal grande quadro di Ensor “viene buona parte dell’opera di Diego Rivera”. Secondo Octavio Paz proprio Ensor pone le basi del muralismo, e allo stesso ne fornisce la critica più radicale.
I grandi spazi costruiti in America Latina per celebrare le Gloriose Entrate -Avenida 9 de julio a Buenos Aires- ci appaiono tragicamente vicini a quel sogno di Hitler e a quel progetto di Speer: una via monumentale, larga 120 metri e lunga 5 chilometri destinata a fare da scenario al trionfo del Reich.
Lima, Buenos Aires, Santiago, Caracas, Bogotá, Città del Messico, nel Seicento, nel Settecento: strade illuminate da lampioni, ampie carreggiate lastricate a selci, il rumore dei carri carichi di mercanzia, a cassetta un meticcio, e per le gentildonne calessi tirati da mule, un negro per postiglione, nel centro storico le dimore patrizie in stile coloniale, las casas coloradas delle famiglie dell’oligarchia (si usavano stoviglie d’argento non per lusso, ma per scarsità di porcellana), la Plaza de Armas adornata dalla fontana, teatro di fiere, mercati, feste, processioni religiose. La piazza: “centro di riunione e convergenza” di ogni città latinoamericana, e di tutto il mondo coloniale, mondo chiuso e perfetto, “una vasta piazza sulla quale si affrontano e si confrontano il palazzo, la casa comunale e la cattedrale: il principe e la sua corte; la comunità e la sua pluralità di gerarchie e giurisdizioni; l’ortodossia religiosa. Fuori dalla piazza, altre tre costruzioni: il convento, l’università e la fortezza”.
E in piazza assistiamo alla festa di entrada, il trionfo, la rituale cerimonia di accoglienza dell’ospite illustre. E’ la versione americana di un rito sociale di tradizione borgognona e fiamminga -la joyeuse entrée, solenne cerimonia di accoglienza, con consegna delle chiavi e Te Deum. Festa popolare e religiosa che nel 1500 scandalizzava gli spagnoli, e che nella Nuova Spagna trovò corrispondenza nei balli e nelle celebrazioni rituali indigeni.
Nell’agosto del 1813 Bolívar, El Libertador, “incoronato d’alloro su una carrozza tirata dalle sei donzelle più belle della città, e in mezzo a una folla bagnata di lacrime”, entra a Caracas (la città raffinata e piacevole descritta da Humboldt era stata distrutta un anno prima dal terremoto), poi a Bogotà, poi a Lima. E’ ancora la stessa cerimonia che verrà grottescamente rimessa in scena nel giugno del 1863: la solennissima entrata trionfale a Città del Messico dell’imperatore Massimiliano. La folla che accoglie il vecchio Perón di ritorno dall’esilio spagnolo è la stessa folla osannante che centotrentotto anni prima si assiepava per l’entrata imperiale di Rosas: Buenos Aires pavesata di rosso, Rosas che “riveste la città di color rosso: case, porte, drappi, vasellame, arazzi, festoni”, scriveva Sarmiento. Anche il giovane Darwin ricorda quelle bandiere rosse al vento, la carrozza del caudillo tirata con corde di seta rossa da duecento uomini, la dovizia di fiori, le campane a festa, le bande. (Darwin era stato tre anni prima ospite di Rosas in un remoto accampamento sulle rive del Río Colorado, alle soglie della Patagonia, quando il generale combatteva gli indios).
Ma non è l’ultima replica: sono ancora joyeuses entrées tutti i trionfi di tutti i caudillos, anche quello di Fidel, il glorioso ingresso di Castro all’Avana, l’8 gennaio 1958 -le bandiere rossonere del Movimiento del 26 de julio ormai da una settimana sventolano su edifici, automobili, autocarri; i ritratti del leader barbuto sono affissi dovunque sui muri- mi appare ora in una luce sinistra. L’Ingresso Trionfale di Fidel non è che l’ultima messa in scena di quel rito politico che aveva già visto acclamati Rosas, Bolívar, Francia, Perón, tutti i caudillos.
Su tutte queste Joyeuses Entrées vedo proiettarsi l’ombra inquietante dell’Entrata di Cristo a Bruxelles di Ensor.
Se nei nostri sogni lo scenario esotico pareva, felicemente, lontanissimo dall’Europa, la storia non cessa di ricordarci che il quadro è uno solo, e comprende nella stessa cornice la metropoli e le estreme periferie, i sogni e le meraviglie, ma anche i dolori e le crudeltà. Bruxelles, legata alla Spagna e al Nuovo Mondo dalle vicende dinastiche degli Asburgo, sarà ricordata non tanto come luogo dell’incoronazione di Carlo V, ma come luogo della sua commovente abdicazione.

Bruxelles
Il passato e il futuro della politica è tutto lì; l’incombere del potere è nello sguardo di quei volti resi come maschere; Cristo è di lato, in fondo piccola immagine. un incubo. Ensor ci conforta con la sua
satira tagliente e disperata. I volti sono maschere, la l’mmoralità e ipocrisia sono smascherate.
Bruxelles, non a caso. La Bruxelles di Ensor è anche la Bruxelles di Rimbaud e Verlaine, il simbolo del mondo dal quale vorremmo fuggire lontano. L’8 luglio del 1873 Verlaine telegrafa a Rimbaud di raggiungerlo a Bruxelles, Hotêl Liégiois. Alle otto di sera del 10 luglio Rimbaud depone presso il commissariato, riferendo del colpo di pistola sparatogli da Verlaine.
In agosto Rimbaud stampa a Bruxelles la Saison en Enfer, 400 copie subito distrutte dell’autore, salvo qualche copia destinate agli amici, tra questi Verlaine: Rimbaud lascia la sua copia alla portineria del carcere.
E’ anche la Bruxelles di Conrad, la tetra “città sepolcro”, “città dei morti”, di cui si parla in Cuore di tenebre. Bruxelles è qui il centro del dominio imperialistico che si irradia, attraverso i fiumi, verso il profondo inferno della foresta tropicale.
Ensor dipinge il quadro (a Ostenda) nel 1888. Conrad entra in contatto con la Société du Haut Congo nel 1889: la vicenda narrata in Cuore di tenebra è in buona misura autobiografica. A Bruxelles infatti il capitano Marlow, che è il giovane Conrad, firma nella grigia sede della Societé Anonyme Belge pour le Commerce du Haut Congo il contratto che lo porterà a intraprendere quel viaggio che si rivelerà terribile anabasi.
Ora si fa buio, lo sfondo lussureggiante è scomparso alla vista, e mi pare di ascoltare Marlow che nel silenzio, con il solo sottofondo dello sciabordio delle acque del porto, racconta il suo viaggio ra risalire il fiume, fino alla terra incognita, fino al cuore tenebroso del mondo esotico, fino a quella palizzata irta di teschi umani oltre la quale arriverà a specchiarsi con orrore nello sguardo di Kurtz.

Bello, bene, buono
Ho parlato dell’opera d’arte, o di altro? Ho parlato di verità pura e di per sé splendente? Almeno per un aspetto, credo di aver seguito la lezione di Trupia. Non ho parlato di un’opera che mi piace. Ho parlato di un’opera che, con la sua severa bellezza, mi ammonisce e mi interroga.
Per un altro verso, credo di essermi discostato dalla lezione di Trupia. Non credo che considererebbe pertinente la mia narrazione divagante – che parte dall’osservazione dell’opera, ma viaggia altrove. Non mi pare che il bagaglio di strumenti di lettura e criteri interpretativi di Trupia preveda la chiave autobiografica. E io ho divagato e ho scritto invece a partire dalla mia autobiografia. Da bambino ho abitato a Bruxelles, così come poi sono vissuto in America Latina.
Ma forse il punto d’incontro, la chiave di volta, sta nel cogliere -come Trupia ci ricorda- l’ampio senso del bello. La bellezza è intrinsecamente, originariamente legata, al bene e bontà. Bello: ‘carino’, diminutivo di buono. Bene: ‘in modo buono’. Buono: secondo l’etimo: ‘fornito di doni o virtù’. Etica ed estetica, che si manifestano in una costante ricerca, in una costante tensione verso il bello, finiscono per coincidere.
L’amore per il bello, così, si gioca -quotidianamente, concretamente- su un terreno preciso, su quale Trupia si muove, come me, e come tanti altri lettori della nostra rivista: il terreno della formazione. Non a caso il libro esce in una collana dell’Associazione Italiana Formatori. Lavoriamo, pur con tutti i nostri limiti, cercando di educare noi stessi, e gli altri, a scoprire, a intendere, ad apprezzare la bellezza.

Riferimenti bibliografici

Piero Trupia. Perché è bello ciò che è bello. La nuova semantica dellarte figurativa, Franco Angeli, 2012, Collana le competenze della formazione.

Matteo Marangoni, Saper vedere. Come si guarda unopera darte, Treves, 1933.

Octavio Paz, Suor Juana o le insidie della fede, Garzanti, 1991. E ancora sulla influenza dell’Entrata di Cristo a Bruxelles nella pittura latinoamericana: Edward Lucie-Smith, 20th Century Latin American Art, 1993.

Albert Speer, Erinnerungen, 1969.

Joseph Conrad, Heart of Darkness, London, 1902.

 Articolo già apparso sul numero 84, dicembre 2012, di Persone & Conoscenze

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