Contributi

Philip K. Dick

di Francesco Varanini 09 Giugno 2013

Ho rivisto in televisione questo pomeriggio Truman Show. La nostra vita è ridotta ad uno spettacolo di cui siamo involontari protagonisti. Viviamo chiusi entro confini che ci appaiono invisibili. La nostra vita è eterodiretta, governata da un qualche occulto regista. Ci sono poi singoli momenti, istanti in cui ci accorgiamo dell’inganno. Ci sono siggoli momenti, istanti, il cui ci appare possibile il transito, il passaggio ad un’altra vita. Viviamo, in fondo, solo una delle tante vite che potremmo vivere. Sta a noi trovare il coraggio di riappropriarci della nostra vita.

Nei titoli del film si leggono i nomi del soggettista e sceneggiatore Andrew Niccol, e del regista Peter Weir. Nessun cenno a Philip K. Dick. Eppure il film non è che una riscrittura di Time Out of Joint, romanzo di Dick.

La stessa esistenza della legge relativa al Copyright ha consigliato a a Weir e a Niccol di non citare Dick. Una legge nata per difendere il ‘diritto d’autore’, un diritto innanzitutto morale, il diritto di veder riconosciuta la paternità dell’opera, si è tradotta in una esclusiva questione di denaro. Dick, che in viva fece la fame, ha eredi ben attenti al possibile ritorno economico. Meglio quindi non citare in nessun modo Dick, meglio evitare di ricordarlo, meglio evitare qualsiasi forma di gratitudine.

Ecco un tipico paradosso, un tipico esempio di realtà paradossale, di assurdità del mondo. Dick ci ha svelato questi paradossi, queste assurdità meglio di qualsiasi altro narratore del Ventesimo Secolo.

Non so se avete letto qualche romanzo di Philip K. Dick. Ve lo consiglio. In ogni caso, lo conoscete attraverso film che probabilmente avete visto. Truman Show, appunto, e Blade Runner, Total Recall, Minority Report, A Scanner Darkly sono frutto dell’immaginario di questo scrittore che resterà tra i geni letterari del ventesimo secolo – nonostante sia stato considerato inizialmente come mero narratore di genere, ridotto nel marginale ambito della science fiction, fantascienza.

Dick: militante contro la guerra, disc jockey, commesso in un negozio di dischi, commerciante di gioielli, sperimentatore di droghe che potrebbero forse aiutare ad allargare l’area della coscienza; in ultimo, vittima dei suoi deliri, approdato alla convinzione di essere profeta, involontario testimone di un nuovo cristianesimo.

Sognava di diventare un grande scrittore. Arriva ad esserlo per vie inattese. Scrive per fame un romanzo dietro l’altro, rischiando di perdersi lui stesso nelle trame che sfiorano l’assurdo.

Col senno di poi, si può dire che la science fiction, letteratura marginale, alla fin fine ha salvato Philip Dick: gli ha evitato il confronto con gli editor delle grandi case editrici, quei signori che vorrebbero decidere al posto dell’autore come un romanzo dovrebbe essere, cosa dovrebbe dire.

La grandezza di Philip Dick risiede forse in questo: lui, in forza della sua immaginazione, la sua disponibilità a credere nei propri fantasmi, il suo sovrano disinteresse per ciò che è ‘normale’

Così, ritroviamo nei suoi romanzi emarginati e persone border line, sulla soglia di ciò che potremmo definire ‘salute mentale’. Da loro vengono le idee più originali, le proposte più innovative. Dick dice a se stesso, e a ognuno di noi: ‘non lasciarci normalizzare’, ‘non permettere che ti schiaccino’. E ciò che vale per noi stessi, vale per ognuno: le persone strambe ed eccentriche che lavorano con noi -persone che normalmente schiacciamo entro i confini di un ruolo già definito- meritano di essere accolte ed apprezzate per quel che sono.

Dick -in diverse opere, ricordiamo sopratutto Do Androids Dream of Electric Sheep?, in italiano Il cacciatore di androidi, da cui il film Blade Runner– ci mostra con lampante chiarezza come i confini tra uomini e simulacri, tra uomini e macchine, tra ‘risorse umane’ e ‘risorse non umane’ sono così sottili e sfumati da risultare alla fine impalpabili, invisibili, inesistenti.

Sfumato è anche il confine tra vita e morte. In Ubik, in particolare, troviamo una scena che la sintesi più compiuta di ciò che possiamo chiamare Knowledge Management. Una persona ibernata, conservata in stato di pre-morte in una sorta di sanatorio, viene richiamata in vita quando si rendono necessarie conoscenze aziendalmente utili, che lui solo possiede.

Così come ci porta ad esplorare il sottilissimo confine tra umano e non umano, tra vita e morte, Dick ci parla della pluralità di mondi. Guardare con eccesso di realismo al mondo in cui viviamo, non ci giova. Meglio guardare al mondo in cui viviamo come nient’altro che uno dei mondi possibili. Ci sarebbe così più facile immaginare, e costruire, alternative.

Il titolo di una sua conferenza recita così: If You Find this World Bad, You Should See Some of the Others, “se trovate questo mondo brutto, dovreste vederne certi altri”. Lui ha visitato per noi altri mondi, ha visto per noi cose in cui non oseremmo credere. Leggendo Dick, siamo chiamati a rimettere in discussione i confini di ciò che appare ‘reale’ e ‘vero’. Siamo invitati ad allargare l’area della nostra coscienza.

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