Contributi

Non solo terapia

di Maria Cristina Koch 20 Agosto 2013

Ricerca e persona umana
Il secolo scorso ci ha insegnato a pensare, poi scoprire, tutto il mondo che vive all’interno della persona. Profondo e affascinante, ci ha permesso di immergerci nell’interiorità, riscoprendo, come accade nella ricerca scientifica sui mondi micro e macro, risonanze, motivi, tratti caratteristici della persona, desideri e divieti inimmaginabili prima. Che davano spiegazione e ragione di comportamenti, questi sì visibili. Ecco che l’interrogazione dell’interno inizia a rendere conto, a spiegare l’esterno visibile.
Il fascino della ricerca, la passione verso ciò che non conosciamo, la straordinaria attrazione verso le acque più profonde e misteriose e, in contemporanea, verso le altezze più eteree del pensiero dell’essere umano si è diffusa contagiando un po’ tutte le discipline: anni magici quelli del primo Novecento dove tutti gli antichi paradigmi vengono fatti saltare, Einstein, Picasso, Freud, la letteratura, la società, l’architettura e lo spazio acquistano nuovissimo significato, lo spezzettamento e la moltiplicazione dei punti di vista dona spessore articolato alla cosiddetta realtà che improvvisamente diviene mobile, letteralmente sotto i nostri occhi, diversa e nuova a seconda di come ci muoviamo noi.
L’incanto del movimento si affianca alla ricerca delle costanti. Ed ecco che prendono forma le categorizzazioni, che diventa significativa la diagnosi, all’inizio intesa correttamente come un tentativo di capire un fenomeno attraverso l’insieme delle sue caratteristiche, ma poi, sempre di più, dal capire un quadro d’insieme si passa velocemente all’identificare, a rendere reale, vero, il risultato della ricerca che acquista una sua consistenza e solidità propria fino a che, progressivamente, la persona stessa viene assorbita nella sua orbita.
Identificare la natura di qualcosa di misterioso si trasforma rapidamente in averne trovato la causa. Il fenomeno si fa centro dell’interesse, dell’indagine attenta, scientificamente impostata e la persona che reca su di sé il fenomeno sfuma sullo sfondo. E, poiché ci affascina da sempre ciò che è più oscuro, questo richiama con insistenza il tempo e il mondo di ciò che, non essendo luminoso, chiaro, leggibile, non avendo la mitica trasparenza dell’acqua, dell’ingenuità, dello sguardo del bambino, necessariamente finisce per appartenere allo spazio che è profondo perché nascosto, perché nasconde. E cosa si nasconde se non ciò che non potremmo mostrare apertamente? Il disagio, la sofferenza, la malignità, le emozioni più violente e indicibili vanno ad occupare un po’ per volta l’intero panorama del pensiero e della ricerca. Le categorie si specializzano e approfondiscono il cuore buio della persona umana.
La ricerca appagante della causa proietta l’origine del disturbo nel passato, anch’esso silenziato per definizione su ciò che non è stato ben fatto, corretto: le violenze, le menzogne, l’imbroglio diventano i fili privilegiati con cui tessiamo la tela dell’esistenza umana. In un andamento sempre più con il capo rivolto all’ingiù, rileggendo e dando nuove significazioni a ogni istante della nostra vita passata, perché là c’è il segreto che, si sa, è segreto proprio perché vergognoso, là c’è la soluzione, dobbiamo trovare la causa che sarà disinnescata, bonificata un po’ già per averla esposta alla luce.

Cura come progetto della persona
Ho una grandissima gratitudine e un’ammirazione sconfinata per Sigmund Freud e per il suo lavoro che mi ha dato nutrimento, invenzione, che mi ha fatto percorrere strade inimmaginate e di cui cerco di riprendere e imitare il grandissimo e profondo davvero senso del valore unico della persona umana. La sua ricerca appassionata, quell’ebraismo ironico e così fremente di leggerezza mentre agita e scava e fatica e cerca ancora più in là. Per questo, proprio perché abbiamo avuto modo di nutrirci delle passioni generose di questi geni di cui nessuno può veramente dire di aver attinto il fondo del pensiero, proprio per questo, credo, dobbiamo smuoverci dalla loro luce e inoltrarci a cercare un po’ da soli: mi sembra l’omaggio più denso di significato e, come hanno scritto, dobbiamo sistemarci sulle spalle di questi grandi ma non solo per esserne trasportati: per guardare più avanti e vedere ciò che ancora non è. Trattare l’ombre come cosa salda.
È passato un secolo, abbiamo un nuovo secolo e un nuovo millennio tutti da inventare, ora sta a noi creare lo spazio e i modi affinché nuovamente si riaffacci il miracolo del Rinascimento: delle idee, della speranza, della competenza attenta, dell’ininterrotto scambio e contagio fra culture e mondi, fra chi sperimenta e chi va a bottega e chi trasforma.
Non sono, poi, così sciocca o superficiale da non considerare la gravità della sofferenza che provoca il disagio mentale e psichico, sono più di quarant’anni che me ne occupo e non penso certo che sia sufficiente una ingenua volontà di pensare positivo o una grande predisposizione a voler bene ad attenuare del dolore spesso devastante, a liberare da trappole spaventose, gorghi di malessere che succhiano ogni spinta vitale. Né, tanto meno, mi sogno di negare la capacità e la competenza professionale di chi fa uso di metodiche di pensiero e di prassi improntate alla più rigorosa scientificità. Come, all’opposto, non avrebbe senso negare gli indubbi risultati terapeutici di approcci tutt’altro che (apparentemente) scientifici. Si potrebbe anche grossolanamente sostenere che, in pratica, ogni approccio al disagio mentale, o psichico se si preferisce chiamarlo così, ha più o meno le stesse percentuali di riuscita e di aperta sconfitta. Tutti, poi, annoverano fra chi se ne è avvalso, un buon numero di risultati indifferenti: danno non se ne è fatto (e questo è pur sempre fondamentale!) ma non si è neppure pienamente risolto.
Come si diceva, questione di punti di vista, non si può che porsi da un punto di vista per pensare, agire, parlare ma ciascuno non è altro che un punto di vista. All’interno di ogni punto di vista si allarga una vera e propria completa ideologia con la sua mitologia, i suoi santi e i suoi demoni, le sue credenze indiscutibili, il suo percorso verso la salvezza, la sua prassi di verità. Basta esaminarli in sinossi per verificarne risonanze e contrapposizioni, assolutamente certe e valide in quell’ambito di contesto: logico, fideista, scientificamente accreditato.
Da qui la dimensione etica che si impone: scegliere un approccio piuttosto che un altro non può attenere alla cosiddetta verità ma alla propria, personalissima, conformazione di stile, desideri, sogni e pensieri sulla vita e sul mondo. Che, in quell’approccio particolare troveranno conferme, correzioni, validazioni definitive e appaganti.
Innegabile, d’altronde, che lo stesso pensiero di terapia sia strettissimamente collegato e connesso al pensiero corrente di benessere: ciascuno è l’altra faccia e conferma dell’altro. E proprio in quel tempo corrente le infinite forme di terapia pescano quegli aggiustamenti della sacra dottrina che la mantengano in vita senza timore di una sia pur larvata accusa di tradimento.
E, allora, qual è il tempo di oggi per come riusciamo a traguardarlo?, quale il pensiero che potrebbe più facilmente aiutare le persone in difficoltà a divenire nuovamente protagoniste della loro esistenza?
A me piace pensare che questo è il tempo della piena cittadinanza, della dignità a tutto tondo della persona. Mi piace pensare che non sia più indispensabile, per potersi affiancare a un altro essere umano, scandire la mitica relazione d’aiuto nei consueti termini up/ down, dove qualcuno ha bisogno e qualcun altro soccorre. Per me il cliente è come i Wiener Philharmoniker, l’orchestra più famosa al mondo che si sceglie il suo direttore pescandolo fra la rosa dei migliori.
Essere chiamata a condurre il passo di una persona vuol dire poter avere il permesso di entrare in una vita, di sperimentare lo stesso mondo attraverso uno sguardo inedito, di apprendere soluzioni, pensieri, avventure, emozioni e slanci. Come fossi un rabdomante, credo di poter trovare l’acqua se qualcuno lo chiede ma chi la desidera, a che cosa può servire, perché mai proprio questa persona proprio ora e proprio qui, cosa mai ne potrà o saprà fare, questo sarà la trama su cui intesseremo la nostra relazione. Ricordando sempre che il possessore dei fili da ricamo è l’altro, suo il disegno che andremo a far emergere. (Di passaggio, per ribadire quanto siamo avvezzi a che l’informazione più significativa sia di qualità negativa, basta fermarsi un attimo: trama non ci richiama forse alla mente un imbroglio, un inganno, un complotto? Che, appunto, può essere ordito contro qualcuno. Fare qualcosa, intessere una storia, in prima battuta sembra vada a dire impegnarsi, organizzarsi per apportare danno!).
Ma in alcun modo ciò può andare a significare che la persona in cerca dell’acqua possa o debba essere in posizione down, come se davvero la relazione, il rapporto, fossero realmente asimmetrici, tra un “esperto” competente che padroneggia una tecnica e un altro che non saprebbe, non conoscerebbe, in posizione di dipendenza. Ovviamente non mi sto riferendo a situazioni in cui una persona può essere così danneggiata da non potersi prendere cura di sé, ma il cosiddetto paziente che si reca da uno psicoterapeuta, oltre a essere catalogato e inserito fra una o più delle categorie diagnostiche maggiormente in voga, è un lavoratore, paga le tasse, cresce i figli, magari gioca a carte, vota alle elezioni, ha un pensiero politico, forse sa cucinare delle ottime lasagne e tiene in ordine casa sua facendo quadrare i conti. Voglio dire che chiamare paziente una persona vuol dire negare la sua piena rotondità di persona viva, quella rotondità che finisce per essere traguardata dal buco della terapia sfilacciandosi in brandelli che, per essere accolti, debbono comporsi all’interno del setting in un quadro condivisibile dalla teoria seguita dal terapeuta.
Certamente questo tipo di pensiero e di prassi ha avuto molta importanza nel corso del tempo e ha raggiunto molti obiettivi, scientifici e umani ma oggi non può più risultare adeguato a questo mondo. Anche i matrimoni combinati hanno avuto senso un tempo e ne hanno ancora oggi in specifici contesti, anche l’harem, anche le stecche del busto stringi vita delle donne, ma il punto non è che cosa è giusto o vero o corretto in assoluto, il punto è venire a capo di ciò che è adeguato al momento in cui lo si colloca e in cui si agisce.
E questo è il secolo che Jeremy Rifkin ha chiamato della “Civiltà dell’empatia”, dove alle soglie di una era tutta nuova la struttura profonda del nostro pensiero, della nostra azione, del nostro sentire va modificata radicalmente per adeguarsi all’epoca sopravveniente. L’epoca in cui ci ristruttureremo verso una migliore capacità di entrare in interazione collaborativa con l’altro, l’epoca in cui ciascuno di noi sempre di più avrà un rapporto con l’altro e con gli altri, tanto più personalizzato quanto più globale.
In questo tempo oggi siamo docenti, domani discenti, come dice spesso Francesco Varanini, in questa epoca il nostro diritto primo è saperci e poterci affiancare uno all’altro in un rapporto di cooperazione, aiuto come affiancamento, senza più alcun bisogno di scandire ranghi e relazioni asimmetriche. Saperci contagiare, condividere la conoscenza che ciascuno porta con sé per dare vita e forma a una conoscenza tutta nuova. Inventarsi la vita mentre anche l’altro lo fa. Esistere e sapersi definiti da ciò che possiamo condividere e fare assieme, non più da ciò che, nostro esclusivo possesso, ci pone in situazione superiore all’altro.
Utopia? Forse, ma è un orizzonte che mi piace tenere davanti; fino a che mi è utile, lo conservo. Ma è a disposizione di chiunque.

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libera professionista, psicoterapeuta, saggista, counselor, formatrice. mcristina@mckoch.fastwebnet.it, www.lacasadivetro.com, www.sistemanet.com, www.sicolombardia.it

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