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Dove sta scritto il nome dei bravi formatori

di Francesco Varanini 28 Ottobre 2013

C’è una legge, promulgata in data 14 gennaio 2013, legge n. 4, che riguarda, tra gli altri, i formatori, e simili figure, coach, counselor. Il titolo della legge è il seguente: Disposizioni in materia di professioni non organizzate.
Un’amica mi scrive dicendo che forse sottovaluto l’importanza di questa legge. “Le amministrazioni pubbliche e anche le aziende a partecipazione pubblica già cominciano a mettere nei loro bandi che i professionisti che partecipano devono essere iscritti a uno dei registri delle associazioni ‘riconosciute’”. “Non essere iscritti significherà spesso non poter lavorare”.
Non so se se sottovaluto o no la portata della nuova norma. Penso solo che di fronte a simili norme si debba cercare di dare risposte ben pensate. Non solo adeguandosi a quella che appare a qualche esperto l’interpretazione più comune della norma. Ma anche, se del caso, andandoci a cercare l’esperto che ci aiuti ad interpretare la norma in base ad una strategia, in base ad un nostro progetto.
Parlo in generale -le professioni e quindi le associazioni chiamate a gestire un elenco di professionisti sono molte- ma anche in particolare: mi riferisco ad una professione in cui mi riconosco: quella del formatore; e ad una associazione cui appartengo: l’Aif, Associazione Italiana Formatori.
Parto da quello che mi pare lo spirito della norma. Si vuole garantire la libera circolazione dei professionisti nell’ambito dell’Europa comunitaria. Si vuole, sopratutto, garantire gli utenti dei servizi, garantendo loro la qualità e l’esperienze del professionista.
Noto anche una ambiguità, una sottile contraddizione. E’ comune e giustamente diffusa la critica agli ordini, agli albi esistenti. Consideriamo tutto ciò una limitazione alla libera concorrenza ed una difesa di tariffe minime, a danno degli utenti dei servizi. Si ha anche motivo di sostenere, credo con motivo, che gli albi, gli elenchi, chiamiamoli come vogliamo, rischiano di negare valore al merito. Si lavora perché si è iscritti all’albo, non perché si è bravi, non perché si gode di buona reputazione.
Tutti abbiamo motivo, nell’Italia imbalsamata di oggi, di considerare dannosi gli atteggiamenti corporativi. Leggo sul Dizionario Treccani la definizione dell’aggettivo: “in senso polemico e deprezzativo, riferito ad atteggiamenti e comportamenti di piccoli gruppi chiusi a difesa dei proprî interessi e privilegi di categoria”.
Ecco, quello che non vorrei è che cadessimo in questo. Perciò vedo con timore la creazione di un elenco. E credo che la prima cosa, in assoluto la più importante, siano i criteri in base ai quali si accolgono i professionisti nell’elenco.
Poiché ritengo che le associazioni perdano senso se si allontanano dal puro spirito di servizio, vorrei sgombrare il campo dall’idea che la costituzione dell’elenco possa diventare, per una qualsiasi associazione, l’occasione per ‘vivere tranquilli’. Qualcuno potrebbe pensare: non avremo più problemi a raccogliere soci, perché l’iscrizione, alla nostra o a un’altra associazione diverrà obbligatoria.
Vorrei insomma ci tenessimo lontani da qualsiasi indulgenza ad un vincolo protettivo, vorrei invece guardassimo a quello che mi pare il punto chiave del testo di legge. Il punto in cui all’articolo 4 si dice che: “L’esercizio della professione è libero e fondato sull’autonomia, sulle competenze e sull’indipendenza di giudizio intellettuale e tecnica”, e sulla “responsabilità del professionista”.
Perciò credo un’associazione orientata alla libertà di mercato, al riconoscimento del merito, e all’assunzione di responsabilità personale da parte di ognuno, dovrebbe offrire il servizio stesso gratuitamente, sia a chi è socio pagante, sia a chi non lo è.
Credo anche che l’inserimento nell’elenco non dovrebbe essere fondato sul superamento di un qualche esame, o sulla partecipazione a quel tal o tal altro percorso, o sulla dimostrazione del possesso di questo o di quest’altro requisito. L’inserimento dovrebbe essere aperto a tutti, e fondato su una mera autocertificazione da parte dei professionisti: che ognuno dichiari un modo trasparente, assumendosene la responsabilità, cosa ha fatto fino ad ora, cosa sostiene di saper fare. Ognuno potrà poi aggiornare in continuo la sua dichiarazione, via via che accumula altre esperienze.
Ci dovrà essere, immagino un comitato di garanti: ma li immagino intenti non a valutare, o a depennare i nomi di qualcuno, ma piuttosto ad indicare i criteri in base ai quali ognuno possa più efficacemente raccontare chi è, e cosa fa.
Se l’associazione continuerà a condurre innanzi una solida politica culturale, se l’associazione coltiverà la propria reputazione di ente attento all’interesse collettivo – questo costituirà un deterrente: i professionisti saranno da ciò stimolati a non millantare, a dare di sé un’immagine onesta.

Questo testo appare come Editoriale su Persone & Conoscenze, ottobre 2013

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