Contributi

Ricominciare dalla fiducia per ripartire

di Claudio Baccarani 28 Aprile 2020

scritto con Sandro Castaldo

Si vedono molti studi che contano i danni del coronavirus per la nostra economia: punti di PIL persi, flussi di turisti che si riducono con annullamenti delle prenotazioni, esportazioni che si bloccano per molti nostri prodotti, negozi, ristoranti e bar chiusi, aziende manifatturiere con ritmi di produzione ridotti.

In realtà, se per molti dei settori le prospettive sono nere, per alcuni il trend è opposto: i prodotti per evitare il contagio (mascherine e disinfettanti), le farmacie, i supermercati, l’e-commerce, i fornitori di attrezzature sanitarie per ospedali, ambulatori e laboratori di analisi stanno subendo uno shock d’offerta, ovvero hanno difficoltà a far fonte alle richieste crescenti del mercato, che sono superiori alle potenzialità di produzioni dell’offerta. Al contrario, la maggior parte degli altri settori vive uno shock della domanda, ovvero una riduzione delle richieste tale da non poter coprire i costi dell’impresa.

Molti sostengono che a differenza delle altre crisi recenti (ad esempio quella che abbiamo vissuto nel 2008-2009) questa dovrebbe configurarsi come una crisi a V e non ad U. Ovvero se la passata crisi ha determinato una caduta dei consumi perdurante e una ripresa lenta, formando una U molto larga, questa recente viene etichettata da molti come una crisi rapida, caratterizzata da un tonfo molto veloce e una ripresa altrettanto rapida, che addirittura potrebbe determinare un rimbalzo positivo. Insomma, secondo molti la fiducia dovrebbe essere recuperata rapidamente con effetti transitori sull’economia e un rimbalzo positivo. Pur volendo aderire a quanto sostenuto dai più, bisognerebbe chiarire almeno due punti, ovvero: (1) la durata della crisi della domanda e dell’offerta; (2) il livello di salute ad oggi delle imprese che si trovano ad affrontare la crisi.

Il primo quesito è quanto sarà lunga. Nessuno può dirlo con sufficiente approssimazione al momento. Sappiamo che il Paese è bloccato fino al 3 aprile, ma ad oggi non sappiamo se i provvedimenti verranno estesi nel tempo. L’unica cosa positiva è che abbiamo un piccolo vantaggio ‘informativo’, perché il contagio nel nostro Paese si è sviluppato con circa 5 settimane di ritardo rispetto a quello cinese di Wuhan (37 giorni per la precisione, come sostengono Giorgio Parisi dell’Accademia dei Lincei e Luca Foresti di Centro Medico Sant’Agostino su Huffpost). Inoltre se prendiamo le curve di diffusione del contagio delle prime due settimane italiane e si sovrappongono con quelle del periodo omologo di Hubei, la regione con capoluogo Wuhan, che conta una popolazione di 58,5 milioni di abitanti (non lontana da quella italiana di 60,5 milioni), queste coincidono quasi alla perfezione.
Seppur le due situazioni non siano del tutto comparabili perché in Italia il contagio è partito in piccoli centri, al contrario di Wuhan e le misure restrittive cinesi si sono rilevate come molto più stringenti di quelle applicate da noi, sappiamo che la Cina può essere un utile benchmark, che almeno può aiutarci ad orientarci in questa situazione incerta e complessa. Questo vorrebbe dire dover attendere almeno un mese affinché il contagio rallenti (ipotizzando che le attuali misure di contenimento del contagio funzionino), per poi attendere ancora qualche mese per sperare di uscire dall’emergenza. Ciò significa che – nella migliore delle ipotesi – non riusciremmo a rientrare dalla situazione di crisi prima dell’estate. Questo per molte imprese – ad esempio, quelle che appartengono alla filiera del turismo balneare o delle città d’arte (dagli alberghi, ai ristoranti e ai servizi turistici) – vuol dire stagione quasi del tutto saltata. E per il nostro sistema economico, molto dipendente dal turismo e dai servizi, questo non è poco. In Italia, il turismo pesa oltre il 13% del PIL nazionale, pari ad un valore economico di oltre 230 miliardi di euro, e conta circa il 15% dell’occupazione totale, per 3,5 milioni di occupati.

Il secondo punto è riferito allo stato di salute delle nostre imprese. Ovvero, un anno di magra se avessimo imprese solide e con patrimoni cospicui, potrebbe anche essere superabile, seppur con molti sacrifici. Il grosso problema che abbiamo nel nostro sistema economico, composto soprattutto da piccole e medie imprese, è che siamo in una situazione di incertezza e di stagnazione ormai da vent’anni. È dall’entrata dell’euro che abbiamo avuto crescite molto contenute o comunque anni di crisi. La pressione fiscale e la rigidità della burocrazia amministrativa hanno fatto il resto, rendendo il nostro sistema strutturalmente debole, poco patrimonializzato e quindi non preparato ad affrontare una crisi del genere. Certo abbiamo dalla nostra parte le riconosciute capacità dei nostri imprenditori e l’estrema flessibilità delle imprese di minori dimensioni. Ma nonostante questo è necessario rispondere allo shock (di offerta o di domanda che sia) con misure di supporto altrettanto decise per ripotare il nostro sistema sui binari dello sviluppo ed evitare di farlo deragliare, con il pericolo di disperdere l’immenso tesoro di sapere e di produzioni tipiche e uniche che esso contiene.

Le prime misure annunciate dal Governo e l’accordo siglato tra imprese e sindacati sulla prosecuzione dell’attività delle imprese vanno in questa direzione, come pure il sostegno incondizionato della Presidenza UE. Non possiamo dire altrettanto dei segnali giunti inizialmente dalla BCE, successivamente corretti dopo le vibrate e opportune proteste delle nostre istituzioni.

Insomma, servono nell’immediato futuro segnali chiari in grado di rinforzare la fiducia istituzionale, che sia in grado di contrapporsi ai segnali, oggi molto forti, di incertezza per il futuro economico del nostro Paese. Per questo dobbiamo essere capaci tutti – dallo Stato, alle Regioni, fino alle imprese e ai singoli cittadini – di innescare il circolo virtuoso della fiducia per spezzare quella che oggi potrebbe apparire come la spirale dell’incertezza. In questo modo una crisi, come quella che stiamo vivendo, può diventare il trampolino per crescere non solo economicamente, ma anche in termini di maturità e consapevolezza sociale, nelle relazioni interpersonali e nel business. In questa partita, che si gioca non solo a livello locale, ognuno deve fare la sua parte, versando il maggior numero possibile di segnali di fiducia nell’ambiente, per disinnescare la sfiducia e, peggio ancora, il panico che l’attuale incertezza inevitabilmente genera. Potremmo uscirne più forti e più sani, come individui e come imprese.

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Claudio Baccarani, Dipartimento di Economia Aziendale, Università degli Studi di Verona. claudio.baccarani@univr.it

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