Contributi

Conoscenza come proprietà emergente. Un avvicinamento al Knowledge Management

di Francesco Varanini 19 Luglio 2012

Parlando una sera a cena con Alberto De Toni di questo libro [questo testo è apparso come Presentazione in: Alberto F. De Toni, Andrea Fornasier, La guida del Sole 24 ore al Knowledge Management, Il sole 24 ore, 2012], ben prima di aver modo di leggerlo, mi sono reso conto che tutti gli approcci al Knowledge Management di cui avevo nozione erano stati presi in considerazione in queste pagine, tutte le metriche tese a leggere il valore degli asset intangibili erano state studiate. Tutti i modelli che ricordavo come più originali, penso a Cynefin, allo Skandia Navigator, erano stati presi ampiamente in considerazione.

Ed anzi, ascoltavo con una certa invidia De Toni raccontare delle conoscenze personali con molti degli studiosi: aveva avuto modo di ascoltare dalla loro voce come era nato l’interesse per il tema, come erano stati definiti i concetti, e come si era arrivati a definire gli strumenti.
Questo, dunque, è sicuramente un punto di forza del libro che avete in mano: una rassegna che forse non ha pari nella letteratura manageriale, non solo italiana.
Ma stavo scrivendo: una rassegna completa, esaustiva. Qui riprendo il filo del ragionamento che avevo in mente quando conversavo, quella sera, con Alberto De Toni. Perché io, come accade ad ognuno, non possiedo una conoscenza enciclopedica. E quindi posso dire che ritrovo nella rassegna i metodi di rilevazione e gli approcci alla conoscenza che conosco. Il mio desiderio di conoscere trova soddisfazione nel reperire, nel libro, moltissimi metodi e approcci a me ignoti. Mi chiedo però, e vi chiedo, se si possa sostenere che una rassegna è completa ed esaustiva.
Siccome De Toni scrive questo libro dopo essersi occupato per lunghi anni di sistemi complessi e adattivi, siamo implicitamente invitati a considerare questo lavoro come una prosecuzione di quei lavori. E se prendiamo per buone le riflessioni sulla complessità, dobbiamo assumere che nessuna rassegna può essere completa ed esaustiva.
Potrei anche sommessamente aggiungere che la rassegna contiene punti di vista meritevoli di grande attenzione -per esempio, qualsiasi cosa scrive Enzo Rullani, in special modo su questi temi, è stimolante. I ragionamenti di Snowden e di Nonaka sono sempre interessanti. Ma la rassegna contiene anche punti di vista che -ancorché ammantati di spocchia accademica- dobbiamo considerare banali, e poco rilevanti. Eppure, anche questi punti di vista appaiono, nel quadro, utili.
Nel cercare di dire perché questi punti di vista, queste chiavi di lettura e queste metriche, le più acute e quelle che ci appaioni più banali, sono pur sempre tutte utili, e meritevoli di attenzione, mi torna in mente la frase di Ugo da San Vittore, filosofo e teologo vissuto attorno al 1100, gran maestro di quella disciplina che oggi chiamiamo ‘Knowledge Management’.
Rivolgendosi ai suoi studenti, scriveva Ugo nel suo Didascalicon: “sed dicis: ‘multa invenio in historiis, quae nullius videntur esse utilitatis, quare in huiusmodi occupabor?’ bene dicis. multa siquidem sunt in scripturis, quae in se considerata nihil expetendum habere videntur, quae tamen si aliis quibus cohaerent comparaveris, et in toto suo trutinare coeperis, necessaria pariter et competentia esse videbis. alia propter se scienda sunt, alia autem, quamvis propter se non videantur nostro labore digna, quia tamen sine ipsis illa enucleate sciri non possunt, nullatenus debent negligenter praeteriri. omnia disce, videbis postea nihil esse superfluum. coartata scientia iucunda non est.”1
Spero che abbiate provato a capire, guidati magari dal ricordo di studi lontani, e comunque dalla curiosità e dal fiuto. È proprio quello che Ugo si aspetta da noi. Comunque ora vi propongo una traduzione: “Qualcuno potrebbe dire: ‘Trovo molte cose nella storia sacra che non sembrano essere di alcuna utilità; perché dovrei occuparmene?’. Rispondo dicendo che vi sono effettivamente nella Bibbia molte nozioni che considerate in se stesse non sembrano avere interesse particolare, eppure se le si mette in relazione con altre con le quali sono strettamente connesse e si prende attentamente in esame tutto il complesso, ci si accorge che anch’esse erano convenienti e necessarie. Alcune cose devono essere conosciute in se stesse, altre, sebbene non sembrino meritare le nostre fatiche, non devono affatto essere trascurate per negligenza, poiché senza di esse nemmeno le prime possono venire conosciute profondamente. Impara tutto, ti renderai conto dopo che nulla è superfluo. Una conoscenza limitata non dà piacere.”
Perciò, d’accordo, pur senza lasciarci trarre in inganno dall’apparente rigore e da certi presuntuosi tecnicismi espressivi, accettiamo la sfida. C’è sicuramente qualcosa di buono e di utile anche nelle modeste e poco acute tesi di qualche studioso americano. E poi le nostre riflessioni sui sistemi complessi ci dicono che non contano tanto gli ‘oggetti di conoscenza’ in sé, quanto i nodi che li connettono. Come ci dice benissimo Ugo: certe nozioni considerate in se stesse non sembrano avere interesse, ma solo mettendole in connessione con altre si intende il senso del complesso.
Seguo ancora per un passo Ugo. Non possiamo fare a meno di ricordare il contesto culturale in cui si muoveva. Per lui la Bibbia non è un testo chiuso, è il testo che comprende ogni altro testo. E’ la parola di Dio. Non è un testo separato al mondo, ma è la chiave di lettura per comprendere il mondo.
Noi oggi abbiamo sotto gli occhi una ‘Bibbia’, una conoscenza enormemente più vasta di quella nota ai tempi di Ugo. Eppure, e a maggior motivo, vale il monito: ‘impara tutto, ti renderai conto dopo che nulla è superfluo’. Vale anche il commento: Coartata scientia iucunda non est. ‘Una conoscenza limitata non dà piacere. E qui trovo un altro merito del libro che avete in mano: si nota il piacere degli autori, il piacere che si estrinseca nell’esplorazione, nella ricerca. Nel confrontarsi, in fondo, nell’esplorare il confine di quella disciplina -il management- che spesso ci appare così angusta. Pur con i loro limiti, tutti gli approcci e tutti gli sguardi che la rassegna proposta nel … capitolo ci presenta, si sforzano di interrogarsi a proposito di ciò che di solito gli studi di management accettano di non vedere. Il management, infatti, nella sua versione ‘normale’, si limita a guardare il ‘valore’ dal punto di vista che interessa a uno o a pochi stakeholder. Allo shareholder, in fondo, interessa una sola metrica: quella contabile-bilancistica. Qui invece ci si interroga, sia pur con tutta la fatica del caso, cercando di individuare -leggendo quella ‘Bibbia’ che è l’insieme delle attività svolte nel tempo da un’azienda- una misura del valore capace di tener conto degli interessi e del punto di vista di tutti gli attori in gioco: fornitori di risorse finanziarie, certo, ma anche lavoratori, clienti e fornitori, abitatori del luogo dove oggi l’azienda è insediata, e abitatori di luoghi e di mondi lontani e futuri…
Anche per questo niente è superfluo, e niente quindi dovrebbe -in base a ragionamenti e modelli dati a priori- essere trascurato. Perché dobbiamo sempre supporre che in un apparente dettaglio si nascondano l’interesse ed il punto di vista di uno degli attori in gioco. Perché dobbiamo ipotizzare che un modello di rilevazione del valore intangibile, criticabile da molti punti di vista, porta comunque alla luce aspetti del valore che modelli più eleganti e meno ben formalizzati trascurano.
E dunque ben venga l’ampia rassegna. Purché ci ricordiamo che essa è inevitabilmente incompleta. Purché ci ricordiamo che non può essere completa.
Per limitarmi ad una fonte, basta ricordare i teoremi d’incompletezza di Kurt Gödel. Ogni sistema formale (logico) non può essere logicamente chiuso, nel senso che esso contiene almeno una proposizione indimostrabile all’interno del sistema, vale a dire con la sua logica e con le sue tesi. Ne segue che per dare una coerenza pratica ai sistemi formali, occorre statuire fuori del sistema, con una libera decisione, non legata alla logica del sistema, la verità di alcune sue tesi.
Siccome di tutto questo Alberto De Toni e Fornasier sono bene a conoscenza, siamo chiamati a considerare la pur interessantissima rassegna come incompleta, parziale, lacunosa, non esaustiva.

Dunque, seguendo ancora il filo del ragionamento che mi era venuto in mente quella sera, quando ascoltavo Alberto De Toni parlare di questo libro, confortato dalle opinioni di Ugo da San Vittore e di Kurt Gödel, credo di poter proporre a chi mi legge un ulteriore passo. Così come non può che essere incompleta la rassegna di punti di vista proposta nella Parte Prima, e la rassegna dei modelli proposta nella Parte Seconda, non può essere completa, né completamente soddisfacente la definizione di conoscenza che De Toni e Fornasier propongono. Né può essere completa e completamente soddisfacente nessuna metrica che si propone di leggere il valore della conoscenza.

Per sostenere questo punto, e cioè per ragionare sull’incompletezza delle metriche, e sui vantaggi delle metriche incomplete, mi avvalgo dell’opinione di Amartya Sen.
Sen, in The Idea of Justice,2 si interroga sulle metriche in grado di ‘misurare’ valori sottili e sfumati (fuzzy concepts) come la libertà e le capabilties. Le conoscenze, che De Toni si propone di misurare, possono essere intese come un caso particolare delle entità prese in considerazione da Sen.
Sen, pur senza rifiutare nessuna metrica, considera evidentemente povere di informazioni e fuorvianti gli indicatori comunemente usati: basta l’esempio del Prodotto Interno Lordo.
Sen afferma che “ridurre ad un solo quantum omogeneo tutto ciò cui abbiamo motivo di dare valore non è possibile”. Quindi, dice, invece di ricondurre gli aspetti implicati nelle valutazioni a un unico sistema di pesi (come accade, possiamo aggiungere ad esempio, nelle metriche contabili e bilancistiche), meglio una ricca serie di pesi anche non pienamente congruenti tra di loro.
Una consolidata tendenza porta a trattare solo presunti elementi omogenei (per esempio il reddito). In questa logica si guarda ad un unico fattore valido massimizzabile: per cui la misura si riduce ad calcolo esatto, ad un indicatore leggibile senza sforzo, nella logica ‘tanto più tanto meglio’, ‘ce né di più o ce n’è di meno?’.
Invece, Sen propone un sistema di valutazione che chiama in gioco oggetti eterogenei, che considera diverse dimensioni del valore non riconducibili l’una all’altra, e che si fonda sulla combinazione di fattori distinti.
Nel definire modalità di rilevazione, sistema dei parametri, indicatori, Sen considera risultato efficace e sufficiente il raggiungimento di accordi limitati e di gerarchie parziali. La scelta dei pesi sarà fatta in funzione della natura dell’applicazione, e cioè di cosa si intende guardare.
Insomma: invece di cercare la metrica perfetta, l’unico indicatore, ci invita ad accettare la molteplicità di quadri interpretativi, anche incompleti. Si tratta di cogliere i trend e i punti di svolta, non di giudicare pensando di avere già in tasca la chiave per dire dove andare, e per giudicare dall’alto di un unico punto di vista cosa è giusto e cosa è sbagliato.
Possiamo quindi fare anche un elogio dell’incompletezza. E dire che oggi abbiamo bisogno di metriche parziali, non importa se imperfette, non esaustive, e non troppo eleganti.
L’importante, è che il gatto prenda i topi, non il colore della sua pelle e tantomeno la purezza della sua razza.
Per cui, paradossalmente, potremmo semmai dire che il limite dell’approccio di De Toni e Fornasier sta nella scuola ingegneristica che porta forse a porsi eccessivi problemi di precisione nella codifica, e insomma nel timore -che sembra affacciarsi in qualche punto- di dover rispondere a critiche che guardino aspetti formali, deterministici e riduzionistici
Perciò è inutile cercare il pelo nell’uovo.
A questo proposito, basta osservare, almeno dal mio punto di vista, che il modo di intendere la conoscenza di De Toni e Fornasier è coerente con le voci di Rullani, Snowden, Polanyi, Nonaka, Edvinsson. Che sono, avrete capito, le voci secondo me più interessanti.
Se però voi che vi leggete vi subordinaste al mio modo di pensare, o a quello di De Toni, o di qualsiasi altro autore qui citato o non citato, rinuncereste alla vostra conoscenza. Rinuncereste cioè a cogliere ciò che mi pare più importante in questo libro.

Interessa semmai notare che De Toni e Fornasier guardano alla conoscenza senza rinunciare a tener conto di criteri di equità e di giustizia. Anzi, potremmo dire che guardano alla conoscenza tenendo conto dell’etica. Un esempio mi pare sufficiente. Se De Toni e Fornasier si contentassero di guardare alla conoscenza dal punto di vista di ciò che interessa agli shareholder, non avrebbero bisogno di distinguere tra valore creato e valore estratto. Per lo shareholder -e intendo la figura in senso lato: azionista, finanziatore in qualsiasi forma, amministratore remunerato, appunto, in base al valore estratto- l’interesse sta semmai proprio nel nascondere la differenza tra le due misure. Ben diverso il punto di vista dei lavoratori -che per lo shareholder sono un mero costo-, e ben diverso l’interesse di chi guarda all’impresa dal punto di vista della sua sostenibilità nel tempo. Per loro, una misura della conoscenza creata, distinta dalla conoscenza estratta, è di vitale importanza.

Bene, De Toni e Fornasier partono dalla convinzione che sia importante distinguere valore creato e valore estratto e di conseguenza costruiscono la metrica.
Una piccola frase, un inciso che appare quasi una excusatio non petita, uno di quei dettagli del testo che Ugo da San Vittore ci insegna a non trascurare, mi pare contenga la implicitamente la chiave epistemologica dell’approccio di De Toni e Fornasier “Il valore della conoscenza è comunque una grandezza che non conosciamo in assoluto. Per capirci, la conoscenza può essere considerata come un noumeno kantiano, cioè non conoscibile in sé. Il valore che noi le attribuiamo è una funzione di un contesto e di una metrica che adottiamo. In altre parole il valore è una nostra rappresentazione soggettiva”.3
Possiamo seguire questo spunto per guardare a come, secondo Kant, ‘conosciamo’. Questo è un punto importante. Infatti questo libro parla non solo della conoscenza ‘in quanto oggetto’, ‘cosa’; parla anche, o innanzitutto, di ‘come si costruisce la conoscenza’. Parla del processo.
Ora, per Kant, le categorie di spazio, tempo causalità, sono dati stabiliti a priori, dati che determinano la forma di tutta la nostra esperienza, e anzi: sono i dati che rendono possibile l’esperienza. Per Kant la validità di questi principi primari di ragione è assoluta. Le categorie e le forme di intuizione non possono essere essere messe in relazione alla ‘cosa in sé’.
Nel tedesco di Kant, l’espressione che normalmente si traduce in italiano con intuizione è Anschauung. Per Kant, si tratta della combinazione di ‘cognizione’ e ‘percezione’. Forse, meglio che con intuizione, si sarebbe potuto tradurre con visualizzazione.
Kant usa anche un altro termine, Anschaulichkeit: possiamo tradurre con visualizzabilità. L’Anschaulichkeit è un proprietà dell’oggetto. Un certo oggetto esiste nel mondo esiste, posso farne esperienza pratica, posso osservare e toccare.
Kant, comunque, considera importante l’Anschauung. I miei sensi percepiscono qualcosa, ma la percezione è governata dalla cognizione, che è uno schema mentale dato a priori. Senza questa rappresentazione mentale, senza concetti astratti, per Kant non c’è conoscenza.
Eppure, nonostante il punto di vista di Kant, gli studiosi di scienze naturali, consciamente o inconsciamente, sanno che nel loro lavoro quotidiano si dà una vera relazione tra la cosa in sé e i fenomeni della nostra esperienza soggettiva. Si dà una relazione che non è puramente ideale, come voleva Kant, ma fondata sull’osservazione personale. Una relazione diretta, non ancora mediata da uno schema mentale. E quindi, nel Ventesimo Secolo, l’Anschaulichkeit è apparso più importante dell’Anschauung.4
Autori di questo passaggio sono sopratutto i fisici teorici, in particolare Niels Bohr e Werner Heisenberg. Nel loro bagaglio c’è una finissima preparazione filosofica, ma soprattutto c’è l’esigenza pratica di sganciarsi dalle categorie kantiane.

A Bohr e Heisenberg appare chiaro che la conoscenza della natura debba partire da pure possibilità, modi inusitati di ‘fare esperienza’.

Solo in un momento successivo ci si dovrà occupare di fissare la conoscenza in uno schema formale. Non conta dunque l’Anschauung, lo schema astratto, il linguaggio formalizzato già noto e già ben codificato, conta l’Anschaulichkeit: pensabilità, mera possibilità che una ipotesi possa essere dimostrata. Come amava dire Bohr, ciascuna situazione sperimentale deve essere descritta tramite concetti che si adattino ad essa. Ogni ricerca ha una propria epistemologia. Non esiste un modo di intendere la conoscenza. Ogni modo di intendere la conoscenza avrà una sua metrica.
Detto in termini ormai abituali per chi si occupa di studi relativi ai sistemi complessi, l’Anschaulichkeit è una proprietà dell’oggetto che osservo, una ‘proprietà emergente’.
Possiamo quindi tornare a dire che esiste una continuità tra questa ricerca attorno al concetto di conoscenza e i lavori che De Toni ha portato avanti per lunghi anni a proposito di sistemi complessi e adattivi. Ragionare sulla complessità è, appunto, allontanarsi dall’a priori kantiano e dotarsi di strumenti per leggere la conoscenza emergente.
E possiamo quindi tornare a dire che le metriche proposte da De Toni Fornasier sono probabilmente efficaci, proprio perché non pretendono di essere le migliori delle metriche possibili. Proprio perché non pretendono di essere valide erga omnes, ed in ogni situazione.

Infatti, possiamo dire che, così come l’approccio alla conoscenza proposto in questo libro discende da una epistemologia della complessità, possiamo anche rilevare il legame tra questo lavoro e altri recenti lavori di De Toni, relativi a quel modo di intendere l’imprenditorialità e il governo delle aziende che che De Toni ha chiamato Evolutionary Management.5

Se i manager vogliono pilotare la loro azienda nelle acque tempestose del mondo contemporaneo debbono acquisire un nuovo tipo di conoscenza. Non la conoscenza astratta, già definita, che è rilevabile tramite metriche consolidate, kantiane, ma la conoscenza che emerge attraverso lo sguardo diverso di un imprenditore e di un manager -o in genere potremmo dire: di un lavoratore- che non rinunci ad essere se stesso, e che a partire dal proprio modo di essere scelga i propri modi per osservare il mondo e per interagire con l’ambiente circostante.

Nel terminare queste pagine introduttive, stimolato dall’approccio suggerito dal testo che leggerete, provo a seguire alcune piste che il testo, mi pare, suggerisce, senza arrivare del tutto ad esplicitarle.

Si può proporre una connessione non del tutto consueta tra conoscenza e informazione. L’informazione è, in fondo, conoscenza strutturata, ben assoggettata a schemi kantiani: caso tipico di schema dato a priori è il modello dei dati di un data base L’informazione è pur sempre conoscenza. Ma è solo una parte della conoscenza. E’ la conoscenza già emersa, conoscenza certo utile, ma non più nuova. Posso certo dire che conosco una persona attraverso i dati anagrafici che la descrivono. Ma proprio la pulizia formale di questa conoscenza strutturata fa pensare, per contrappasso, a tutto ciò che non so di quella persona, e a tutto ciò che quella persona sa, senza che io ne sia a conoscenza.
La conoscenza, insomma, non è fatta solo di dati, ma è fatta invece, innanzitutto, di narrazioni. Il poeta si affaccia sul caos e ci parla di ciò che vede emergere. Ce ne parla in forma simbolica, criptica, parziale, attraverso un linguaggio che è proprio solo del mondo che sta osservando.
Del resto, non a caso, il libro che vi accingete a leggere si fonda su un narrazione. Quanto vale Gerusalemme: “La conoscenza -come Gerusalemme- non vale ‘niente’ se non si è capaci di trasformarla, ma vale ‘tutto’ se invece si è capaci di farlo”.
Perciò, accanto agli indicatori proposti da De Toni e Fornasier a completamento, possiamo immaginare una pura raccolta di narrazioni riguardanti il nuovo che ‘stiamo conoscendo’. Lì, in queste narrazioni, sta la conoscenza che che non ha trovato ancora altra forma per esprimersi.
Infine, possiamo tornare sulla riflessione a proposito della natura duale della conoscenza6 La conoscenza può e deve essere intesa sia come oggetto che come processo -come sostengono De Toni e Fornasier e come è implicito nella riflessione sull’epistemologia kantiana e post-kantiana sopra rammentata. Ma la ricchezza, il valore che la conoscenza porta con se ed esprime sta, credo, nella possibilità di partecipare diversamente al processo e di osservare diversamente l’oggetto. Ognuno interagisce con il mondo e coglie alcune proprietà emergenti.
Perciò posso provvisoriamente concludere queste pagine introduttive sostenendo che conoscere è, interagendo con il mondo, ‘sbrogliare il groviglio che ho in mente’.
Lo lascio dire a Humberto Maturana. La conoscenza, ci dice Maturana, “non è è la rappresentazione di una realtà data a priori, non è un procedimento di calcolo basato sulle condizioni del mondo esterno. Quando un essere umano si comporta in modo adeguato e coerente con le circostanze specifiche, o quando un osservatore arriva alla conclusione che sta percependo una condotta adeguata in una situazione da lui osservata, allora questo osservatore dice che questa persona conosce; dice che ha conoscenza. Dunque la conoscenza è la condotta considerata adeguata da un osservatore in un determinato dominio”.7

 

1Ugo di San Vittore, Didascalicon. De studio legendi, VI, 3 (scritto attorno al 1128). Per un acuto commento, si veda: Ivan Illich, In the Vineyard of the Text: A Commentary to Hugh’s Didascalicon, University of Chicago Press, 1993; trad. it. Nella vigna del testo, Cortina, Milano, 1994.
2Amartya Sen, The Idea of Justice, Penguin Books, 2009; trad. it. L’idea di giustizia, Mondadori, 2010. Si veda in particolare, a questo proposito, la Parte III.
3Vedi in capitolo: Il triangolo della conoscenza.
4Mara Belle, Quantum Dialogue: The Making of a Revolution, University of Chicago Press, 2001, pp. 113 e segg. Mary Jo Nye, The modern physical and mathematical sciences, Cambridge University Press, 2002, pp-196-197.
5Alberto F. De Toni, Andrea Barbaro, Visione evolutiva. Un viaggio tra uomini e organizzazione, management strategico e complessità, Etas Libri, 2010.
6Si veda il paragrafo 10.2.
7Humberto Maturana Romesín (intervistato), Bernhard Pörksen (intervistatore), Vom Sein zum Tun. Die Ursprünge der Biologie des Erkennens, Carl Auer, Heidelberg, 2002; cit. dalla trad. spagnola Del ser al hacer. Los orígenes de la biología del conocer, Granica: Juan Carlos Sáez, Buenos Aires, 2008, p. 80.
Fonte: Questo testo è apparso come Presentazione in: Alberto F. De Toni, Andrea Fornasier, La guida del Sole 24 ore al Knowledge Management, Prefazione di Giuseppe Zollo, Presentazione di Francesco Varanini, Postfazione di Giannino Piana, Il sole 24 ore,
2012.

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