In occasione dell’uscita del volume Breviario semiserio per manager pensanti di Paolo Iacci, editore Guerini, Milano, 2012, qui di seguito pubblichiamo la Prefazione di Pierluigi Celli
Il testo di Paolo Iacci non ha bisogno di nessuna prefazione: è così lieve e divertente che meriterebbe di legittimarsi da solo, come tutte le cose che accadono per una loro grazia di origine e non devono ad altro che a se stesse il godimento che riescono a procurare.
E tuttavia, poiché l’autore insiste, inconsapevole del danno cui va incontro, diremo qualcosa del suo breviario che forse non collimerà con la sua impostazione, ma che a noi ha procurato più di un cattivo pensiero.
Innanzitutto, l’andamento per parabole, che introduce ogni singola voce con quel fare apparentemente svagato che ti costringe a stare sul chi vive. Che sarebbe poi come stuzzicare il can che dorme.
Nessun manager che si rispetti può rinunciare a cuor leggero alla sua dose di diffidenza verso chi pretenda di semplificare, con tanta noncuranza per la letteratura del settore, un mondo costruito ad arte per sembrare esoterico e a misura di una elite così ristretta e orgogliosa da non nutrire nessun dubbio sulla propria irrilevanza.
La categoria deve pur difendersi se non vuole scoprire le carte consentendo al volgo di accorgersi di quanta povertà grondi e quanto esangue.
Ci sarebbe poi da dire qualcosa della scelta dell’alfabeto. Una bella trovata, senza dubbio, ma… l’esaustività?
Una delle fisime della categoria di riferimento avrebbe qui campo libero per contestare la selezione delle voci, in nome di quella accuratezza che, aspirando alla totalità autoreferenziale, in pratica si riserva la mano libera per dichiararsi insoddisfatta di qualunque opzione fuori dal solco della grigia tradizione. Non si può impunemente affrontare il tema pensando che sia praticabile girare intorno ai suoi miti e alle sue conquiste teoriche con una vena narrativa, colloquiale. Un vero attentato alle sue tanto decantate basi scientifiche.
Per non parlare, inoltre, della sciagurata elusione di ogni formula, grafico o, quantomeno, di un timido tentativo di dare dignità quantitativa ai ragionamenti. Senza lo straccio di un numero “ non valet argumentum”. Un breviario, se non è un manuale operativo, dovrebbe essere per lo meno talmente cinico da insinuare il dubbio che si voglia parlare d’altro o, al più, che si conosce talmente bene il mondo di cui si tratta da volerlo puntigliosamente sabotare raccontando per metafora le sue debolezze.
Iacci ci parla invece con una semplicità disarmante di cose quotidiane, introduce colpevolmente una dose massiccia di sentimenti e di passioni, insiste nel volerci mostrare modi di fare manageriali che hanno persino dell’umano: in breve, semplifica, argomenta con gentilezza, suggerisce che la vita conta oltre la professione; disegna un mondo che sembra persino possibile. E con questo si condanna ad essere credibile anche per chi ha ragioni di sospetto non gratuite verso la letteratura manageriale.
Ma, così, il sospetto che i destinatari reali siano poi diversi da quelli genericamente etichettati con roboanti connotati manageriali non tranquillizza più che tanto, anzi, se possibile peggiora la situazione dell’autore.
Come può essergli passato per la mente di immaginare una platea di manager ’pensanti’?
Il vero manager ha altro da fare: decide, comanda, si tutela, cerca connessioni che contino, frequenta i salotti buoni, talvolta persino si preoccupa; ma ‘pensare’, buon dio, che inutile perdita di tempo!
Se la sera gli resta del tempo, prima di addormentarsi, il manager di successo si tormenterà intorno a qualcuno che sembra insidiarlo, anche solo di lontano, cercando di convincersi che sì, il potere non può avere eredi, e dunque tanto vale spingere sui pedali e fare il vuoto intorno a sé.
Perché attardarsi intorno a temi irrilevanti, per di più consegnati a un breviario semiserio?
Un vero controsenso manageriale.
Appunto: ecco una buona ragione per provare di andare controcorrente, tentando di ridare alle cose il loro peso reale e alla vita la chance di riprendersi le sue rivincite.
E allora, a, come autorità; b, come benessere; c, come carriera…d, e, f, g, h, i …z, come zelo.
Non servirà a molto, ma alle volte basta a renderci felici della nostra diversità. Se non altro per avere l’illusione di dire ai più giovani che se proprio vogliono cercare il paradiso è per altre strade che devono cercarlo.”