Se vinciamo, stavolta non faremo prigionieri.
Cesare Previti, dall’intervista al Messaggero del 15 aprile 1996
Anni fa, tanti ahimè, in America centrale feci amicizia con una donna che quindici anni prima, all’inizio della rivoluzione sandinista in Nicaragua, era stata giudice del tribunale penale di Managua. Raccontandone, en passant disse che era stata nominata quando aveva ventidue anni, da poco laureata. Di fronte alla mia sorpresa e perplessità ebbe una reazione aggressiva e terminammo litigando sui meriti e demeriti, sulla necessarietà o meno di un lunga esperienza umana per potere giudicare crimini, e quindi persone. Io, in sostanza argomentando per il non volermi mai trovare a essere giudicato da una ragazzina [o ragazzino], lei per la necessità di fare tabula rasa di un organo corrotto [in quel caso l’intera magistratura somozista] per aprire la strada a un radicale rinnovamento. Non ci vedemmo più; non a causa di quella giornata, solo i casi della vita. A distanza di anni, mi è tornato in mente spesso quello scontro, non arrivando mai a “decidere” chi di noi due avesse ragione, o meno torto.
L’ultima, recentissima volta è stata pochi giorni fa, parlando con una persona molto addentro alla nuova amministrazione del comune di Milano, che mi spiegava delle difficoltà a lavorare con una burocrazia incrostatasi da decenni di amministrazione per così dire di altra ispirazione, e allo stesso tempo della manifesta lentezza, e a volte incapacità, dei nuovi dirigenti, inesperti della cosa pubblica, in particolare dei più giovani.
Ascoltandola, al di là di quel solito flashback, pensavo a quanto [individui e organizzazioni, grandi e piccole e piccolissime] ci sia comune quell’esperienza, e quelle due, speculari lamentele: cerchiamo di cambiare ma non ce lo permettono [in tutte le sue varianti] e i giovani mancano dell’esperienza necessaria per.. [in tutte le sue varianti]. E a quanto al di là della difficoltà di trovare una giusta miscela di esperienza e inesperienza per affrontare problemi vecchi e nuovi, pare che proprio le transizioni ci spingano a dimenticare i principi etici democratici che dovrebbero informare tutti i processi organizzativi [aziendali come istituzionali], e che davanti alle difficoltà congenite di ogni cambiamento tendiamo a pensare che vi sia un trade off fra innovazione/improvvisazione e tradizione.
Così, in questo periodo che in generale si fa un gran parlare di rinnovamento, a me, a parte quel solito flashback, torna spesso in mente un bel libro di Geoff Dyer che lessi ancora prima di quel litigio, Natura morta con custodia di sax, sulla musica jazz, che dalla sua nascita ha fatto del rinnovamento continuo la sua ragione d’essere [al punto che definirne i confini è impossibile, se non dicendo che jazz non è una determinata musica ma piuttosto un’attitudine verso la musica], nel quale si dice che in ogni improvvisazione di un grande musicista si sentono le voci di tutti quelli che lo hanno preceduto anche se apparentemente la musica è completamente diversa.