Contributi

Donne manager e talenti sprecati. Per un censimento delle competenze

di Luisa Pogliana 30 Dicembre 2012

Qualche tempo fa ero all’Università Statale di Milano per una presentazione di un mio libro sulla realtà delle donne manager nelle aziende italiane. Erano venute a parlarne, tra le altre, alcune rappresentanti di istituzioni politiche. A un certo punto vedo entrare una di loro accompagnata da una donna dall’aspetto magrebino, con il velo in testa. Ecco, pensai, perché l’ha portata? Per far vedere come siamo accoglienti e valorizzanti? Conoscendo gli spazi concessi dal nostro mercato del lavoro a queste donne immigrate, di solito ben lontani dai ruoli di donne manager, temevo qualcosa di strumentale. Intanto, dopo gli interventi iniziali, si comincia a discutere. A un certo punto prende la parola proprio quella donna, e racconta di sé.
Quando vivevo in Tunisia -dice- io ero dirigente d’azienda, ed ero anche una di quelle dure, mi facevo valere e ho fatto lavori importanti. Ma da quando sono venuta in Italia trovo un mucchio di difficoltà a fare lo stesso lavoro, nonostante l’esperienza e la qualificazione. Ora un lavoro l’ho trovato, e mi impegna molto. Ma qui non sono solo le aziende a crearmi difficoltà. Siete anche voi, donne italiane, mamme italiane. Io ho due figli, educati ad essere autonomi. Sono sempre stati bene, non c’è mai stato un problema per il fatto che lavoravo e tanto. E’ solo adesso che cominciano i problemi. Perché vedono come le mamme italiane trattano i loro figli, e pretendono anche da me di essere trattati così: superprotetti, mamme al loro servizio. Io i sensi di colpa non li ho mai avuti, non sapevo nemmeno cos’erano, ma adesso a causa vostra i miei figli cominciano a farmeli venire. Se volete fare le manager, forse, dovete cambiare un po’ anche voi.
Ecco qua, mi sono detta, oggi ho preso la mia lezione. Donne che vengono dall’altro lato del Mediterraneo hanno qualcosa da insegnarci su come essere manager e mamme. Ci mostrano i nostri errori, e lo fanno fondandosi sulla loro cultura. Una cultura che noi pensiamo di conoscere, ma spesso non andiamo troppo oltre l’idea di una società più arretrata rispetto a noi, soprattutto per quanto riguarda le donne.
Ma c’è di più nel ragionare su questo rapporto. Noi donne impegnate in percorsi professionali possiamo fare il nostro lavoro solo se abbiamo accanto queste donne immigrate. E’ il loro lavoro che ci permette di fare con un po’ più di tranquillità il nostro. Possiamo delegare a loro la gestione della nostra casa, una parte significativa della cura dei nostri figli, e dei nostri familiari anziani. Sono lavori modestamente retribuiti, ma soprattutto lavori senza una prospettiva di miglioramento.
Come scrive Saskia Sassen, queste donne “formano una classe invisibile, priva di potere, di lavoratrici al servizio dell’economia globale, senza possibilità di avanzamento. Questi tipi di mansioni non vengono mai rappresentati come una componente dell’economia globale, ma in realtà fanno parte dell’infrastruttura essenziale per la gestione del sistema economico”.
Lavori invisibili, persone invisibili, intese solo come massa indifferenziata. Ricordiamoci cosa ha voluto dire per noi la parola ‘marocchini’: tutte le persone della prima ondata di immigrazione dall’altra riva del mediterraneo. La parola ‘marocchini’ è poi stata sostituita da un’altra altrettanto stereotipata rispetto al loro ruolo lavorativo: ‘vucumprà’.
E qui pensiamo anche ad un altro aspetto che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni. La signora che si prende cura della mia casa ha un diploma di informatica, quella che lavora da mia suocera era insegnante di fisica. Chi non conosce qualche donna laureata o dotata di alto potenziale, costretta a lavorare come ‘badante’ o in un’impresa di pulizie?
Dovremmo cominciare a guardare in faccia la commessa, il barista, gli immigrati che incontriamo per strada, e pensare: probabilmente, un talento sprecato. Ci sono qui da noi lavori che non vogliamo fare, e ci fa comodo vedere queste persone come destinate e adatte solo a questi lavori. Così si creano per questi lavoratori e lavoratrici infiniti ostacoli, anche formali: il valore legale del titolo di studio è solo un esempio.
Eppure queste persone, a competenze e capacità, aggiungono la forte motivazione (spesso le donne sono le più determinate, motivate, molte volte sono loro le apripista rispetto al nuovo paese). Aggiungono una diversità culturale (aver vissuto in luoghi diversi, conoscere più lingue, saper osservare il nostro stile di vita dall’esterno, sapersi confrontare con culture diverse) che ha un preciso valore di mercato: le persone immigrate qui da noi potrebbero aiutarci a migliorare la nostra capacità di agire sul mercato globale, portando una maggiore possibilità di capire le altre culture. Se il futuro delle nostre aziende sarà sui mercati internazionali, sempre più sarà necessario un management multiculturale. E’ lì, anche lì, che è importante integrare persone di altre culture.
Per questo sarebbe molto fruttuoso per le aziende, oltre che giusto da un punto di vista etico, portare alla luce e valorizzare queste risorse. Con una rilevazione delle competenze di lavoratori e lavoratrici immigrati. Un censimento non fondato su una descrizione di competenze data a priori (cioè, vediamo se è adatto o adatta a fare un certo lavoro per cui c’è richiesta). Perché per questa via si finisce per trovare quello che si cerca. Ma piuttosto cercando ogni capacità: quello che sa fare, quali lingue conosce, titoli di studio non legali da noi e spesso non dichiarati per timore di non essere accettati per lavori manuali, quelli che di solito vengono proposti a loro.
Un’operazione così richiede ovviamente il coinvolgimento di diversi attori economici e sociali. Penso ai sindacati, alle associazioni imprenditoriali, alle associazioni professionali, in particolare quelle di donne. Difficile mettere in moto una simile macchina. Ma è importante cominciare da qualche parte.
Dal mio punto di vista di manager, vedo che questa operazione si può fare a livello aziendale.
Quasi nessuna azienda l’ha fatto, ma qualcuna ha provato e ne ha tratto risultati: proprio guardando a un caso che conosco, fa impressione scoprire che abbiamo già in casa le persone che magari stiamo cercando sul mercato.
Penso anche che per fare questo lavoro siano più attrezzate le donne. Perché noi, donne manager, abbiamo esperienza di quante e quali sono le risorse sprecate oggi nelle aziende italiane. Semplicemente, le risorse sprecate siamo noi. Risorse di competenza e motivazione, non riconosciute per stereotipi culturali dei vertici aziendali maschili. Può sembrare ardito accostare la nostra situazione, per molti aspetti già di privilegio, al lavoro delle donne immigrate. Ma noi possiamo capire, e abbiamo voglia di cambiare le cose. Perché abbiamo una diversa idea di come si possano governare le aziende e cerchiamo di aprire spazi a questa nostra visione.
Anzi, voglio fare un esempio addirittura più estremo. Recentemente, dato che le posizioni di vertice nelle aziende italiane restano fortemente chiuse alle donne, e sembra difficile trovare donne da inserire nei CDA ora che la legge lo impone in una certa misura, alcune organizzazioni di donne professionali hanno fatto un censimento di quelle che hanno tutti i requisiti per accedere a queste posizioni. Raccolgono il loro curriculum e propongono pubblicamente i loro nomi . Come dire: eccole qua, nome e cognome, le donne competenti che non volete vedere.
E racconto anche un’altra l’esperienza reale, messa in atto da un donna HR Director (questo è il suo titolo ufficiale) in una grande multinazionale.
“Nella mia azienda adottiamo politiche con l’obiettivo di avere una buona presenza di donne in tutti i livelli organizzativi. Io ho prestato particolare attenzione ad aumentare la presenza di donne in ruoli di responsabilità, usando molti strumenti. Ma prima di tutto quando ci sono posixìzioni aperte a questi livelli abbiamo cominciato a chiedere ai manager in azienda di segnalarci nomi di donne che conoscono e considerano adatte per quelle positioni. Se i nomi di donne non emergono immediatamente, chiediamo di guardare meglio e ampliare il terreno di esplorazione. In questo modo svolgiamo un’opera di educazione, si crea una cultura: fare questa domanda, chiedere in maniera esplicita di pensare ad una donna, significa portarli a considerare le donne e vederne le qualità. Dopo aver fatto queste domande alcune volte, i manager si trovano poi a pensarci spontaneamente. I pensieri strutturano la realtà, i collegamenti mentali che sono stati attivati diventano presenti nella routine quotidiana”. (*)
Ecco, io credo in operazioni simili. Possiamo dire che, come in azienda servono politiche tese a permettere la piena espressione professionale delle donne, azioni simili possono servire anche rispetto a lavoratori e lavoratrici immigrati.
Per questo chiudo con un caso reale. Una grande multinazionale italiana, con una quota consistente di dipendenti immigrati, qualche anno fa ha fatto un censimento delle competenze rispetto a questa popolazione al suo interno. Tra i risultati, un caso clamoroso: in una attività di servizio non qualificata, si scopre Orazio (cambio il nome), giovane africano. Parla cinque lingue, ha due lauree, di cui una in informatica, specialista di una serie di sistemi informatici avanzati. Subito inserito nella direzione ICT, da allora ha lavorato a progetti importanti e innovativi.
Speriamo che altre aziende imparino da questa esperienza. Quanti Orazi e Orazie troverebbero?
Certo, l’aggravamento spaventoso della crisi avvenuto in pochi anni rende oggi anche questo più difficile, in aziende che spesso licenziano molte persone, compresi spesso i loro talenti migliori.
Ma forse serve almeno a far pensare che le aziende potrebbero andare meglio se valorizzassero le potenzialità sconosciute che hanno al loro interno.

Note. Questo testo è stato scritto per il Concorso letterario Lingua Madre.
Il brano contrassegnato con l’asterisco (*) sintetizza un’esperienza raccontata nel libro Le donne il management la differenza. Un altro modo di governare le aziende, di Luisa Pogliana (Guerini, 2012)

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