Contributi

Indicativo e femminicidio

di Maria Cristina Koch 05 Ottobre 2013

Ascoltavo, giorni fa, la canzone di Pino Donaggio del 1965, “Io che non vivo senza te” e mentre canticchiavo nostalgica d’improvviso ho visto davanti a me il testo e ho pensato che poteva anche passare per un vero inno allo stalking. Eh, già, lui non vive senza di lei ma lei vuole andarsene e lui l’incalza: non puoi, sei mia, sei mia. Niente potrà separarci anche se tu mi vuoi lasciare perché come posso stare una vita senza te? e certo, se non vive solo un’ora senza di lei.

Questa è una canzone ed è bellissima, non c’è dubbio, ma mi ha innescato tutta una serie di pensieri su quanto, mai come oggi, le parole creano la realtà e le persone la mettono in scena.
In altri tempi le chiamavamo metafore, modi di dire, come “ti mangio di baci”. Ma con il ’68 è finita la distinzione fra il mondo dell’assoluto dove abitano le metafore e il mondo del quotidiano dove noi umani assieme costruiamo una realtà palpabile, condivisa e verificabile. Gli slogan anche allegri quanto guerreschi sessantottini hanno preso un’altra vita scendendo nel reale e abbiamo attraversato attoniti e sconvolti gli anni tragici delle Brigate Rosse.

Da quegli anni abbiamo assistito alla progressiva sparizione, fino a divenire vezzo da intellettualoidi, del congiuntivo e del condizionale. Un brutale, elementare indicativo ha reificato senza farsi domande le nostre metafore, i pensieri sul futuro, i commenti sul che fare. L’arte che anticipa i costumi sociali, le canzoni rock della rabbia, la protesta contro il potere sono bruscamente entrate nel quotidiano.

Incapaci di pensare, di immaginare e prevedere secondo modi e tempi differenti dall’indicativo presente, ci agitiamo in una strana realtà che non governiamo e che, dunque, tendiamo a semplificare tracciando poche, riconoscibili, linee di comportamento. E, come sempre, si cerca il colpevole, eccole, monta la rivolta contro le donne che trascurano il focolare, pretendono anche di non desiderare necessariamente dei figli, fronteggiano spesso vincenti l’ambizione maschile nel mondo del lavoro, si permettono di avere un’idea propria e di volerla attuare. Ma a casa possono essere prese per i capelli, picchiate, sopraffatte da una forza fisica, inseguite se viene loro in mente di liberarsi di un rapporto.

Non risolveremo certo la tragedia del massacro delle donne attraverso la grammatica e la sintassi ma possiamo essere un po’ spaventati da una semplificazione sempre più grossolana che ci limita il pensiero e ci preclude prospettive differenti. Ad esempio nel cercare di capire che modello di uomo vogliamo per questa società di oggi e di domani, faremo un passo avanti se possiamo liberarci tutti dagli schemi riduttivi del macho, dello yuppy, del mammo sensibile, dell’uomo senza più capelli che per non essere violento deve deporre la mascolinità.
Ma come ce lo immagineremmo un uomo per le donne di oggi?

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libera professionista, psicoterapeuta, saggista, counselor, formatrice. mcristina@mckoch.fastwebnet.it, www.lacasadivetro.com, www.sistemanet.com, www.sicolombardia.it

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