Contributi

Noi donne e l’esperienza della psicoterapia

di Maria Cristina Koch 16 Ottobre 2013

Qualche considerazione su un accoppiamento che pare molto naturale ma che a me sembra presenti dei passaggi non così ovvi né trasparenti. Sia dal punto d’osservazione delle donne psicoterapeute, sia da quello delle donne che, cercando una relazione migliore con se stesse, si recano a lavorare con le professioniste chiamate così.
Perché questa sfumatura di preoccupazione? Beh, quel che mi gira in testa è che le donne, noi donne, ci accostiamo all’esperienza chiamata terapia tutto sommato a passo lieve. Qualche ruga di ansia, il timore di scoprire chissà mai quali terribili cose al nostro interno, un pudore impacciato, certo, ma nella sostanza non è un’esperienza che ci risulti estranea. Gli anni dei gruppi di autocoscienza ce li ricordiamo bene, ma ben prima e dopo di questi, in tutta la storia delle donne è presente il confidarsi, lo scoprirsi, il rovesciare pensieri vuotandoli sul tavolo come se fossero il portamonete racchiuso nell’incavo dei seni e poi riguardarli, rigirarli, le dita delicate e impazienti assieme che si accavallano nel comporre disegni e figure. Le donne, noi donne, scriviamo i diari, facciamo le telefonate, dai, prendiamoci un caffè perché ti devo parlare, ci raccontiamo e raccontandoci svolgiamo davanti ai nostri occhi il film delle emozioni, delle percezioni, dei nostri pensieri.
Forse una delle nostre competenze più abituali e diffuse, non a caso archiviata dai maschietti nella sprezzante categoria delle chiacchiere. Eppure, è proprio da qui che vorrei prendere le mosse: troppo abituale, troppo diffusa, così tanto femminile questa competenza che non ci sembra davvero di dover fare un salto grandissimo “entrando”, come si dice, in terapia. E, allora, accade spesso che esattamente questa facilità di giocarci nel rapporto di familiarità ci faccia velo alla necessità di un registro altro da attuare, praticamente sovrapponibile ma con quel filo di discrepanza che lo rende sostanzialmente, radicalmente differente.

Mi è capitato spesso di sperimentare questa parete divisoria trasparente e in gran parte indefinibile ma chi ci è passato credo sappia che cosa intendo. Accade, allora, di trovarsi di fronte a una grandissima difficoltà perché le parole stesse tradiscono il nostro pensiero accoppiandosi velocemente con la predisposizione abituale alla confidenza e nascondendo così il salto logico e relazionale che occorre per entrare a pieno titolo nel rapporto terapeutico. Mi è capitato di sbattere contro questa parete e di ristare sconfitta, le dita che accarezzavano e premevano e spingevano e tentavano invano una trasparenza infrangibile. Trovarsi di fronte a questa vitrea impossibilità di riuscire a intendersi è un’esperienza piuttosto dolorosa.
Inciampiamo così anche noi donne quando pratichiamo questo mestiere dalla parte della terapeuta. Anche da questo lato, con la scioltezza dell’abitudine, talvolta, spesso, non ci accorgiamo di non esserci preoccupate della necessità di partire da zero e non da tre. Come accade alle nonne che non sanno imparare nuovamente dalle madri. Mi dice con intelligenza chiara Daniela: un capomastro, abile nel suo mestiere, può arrivare a diventare più abile, abilissimo, ma non ha l’apertura delle opzioni di chi comincia da zero per imparare il mestiere. Ce lo ha raccontato Massimo Troisi, ce lo mostrano le linee che si divaricano: la maggiore apertura richiede in partenza non più di un piccolissimo scarto per una forbice ampia, generosa. Come dire che la predisposizione femminile a confidarsi è una sorta di “falso amico” come accade nelle lingue vicine, sorelle? Sì, un po’ così, tanti, mille punti di contatto che troppo spesso costringono a un accoppiamento che non richieda stupore, che scorra via facilmente.
Da questo punto di vista, è ben vero che gli uomini si servono con minore frequenza delle nostre pregiate professionalità ma, quando decidono di usarle, spesso accade che si accostino agli incontri terapeutici con una seria, composta attenzione a capire, vedere, adeguarsi a regole che pensano di non conoscere e, dunque, si predispongono ad imparare. Lavorare con le donne ci è più facile, sembra richiedere un grado minore di estraniamento dal nostro modo di essere persona eppure penso che sia più scivoloso, che più di frequente occorra testare se ci stiamo adagiando in un agevole rapportarsi di cui conosciamo bene dettagli minuti, sequenze, sorrisi, complicità. Lavorare con un uomo è diversamente facile, c’è un gusto speciale nel riuscire a costruire con un uomo una intimità d’intesa che non travalichi il rispetto pudico per trasformarsi in complicità. Siamo più avvertite, noi donne che facciamo le psico, quando ci rapportiamo con un uomo e, forse, l’attenzione che dedichiamo rende più semplice procedere assieme, senza slittamenti o sbandamenti verso registri incongrui con il nostro lavoro.
E, ancora, tanto per non tralasciare di massacrarci aggiungendo difficoltà a difficoltà, lo stesso ambito terapeutico trascina verso un ruolo ben codificato da chissà quanto: basta ricordare i termini cura, rispetto, intimità, malattia, sofferenza, dolore, rapporto, disponibilità, conversazione…, termini che rimandano immediatamente a una cultura che tradizionalmente viene abitata dalle donne. Le mani fresche e leggere che consolano il sofferente, l’esposizione delle piaghe da curare, l’esperienza antica del dolore negli occhi di chi si prende cura, come non riconoscere i tratti delle suore cappellone negli ospedali, delle infermiere di guerra, delle madri, delle spose, delle nonne che proteggono e curano parlando piano fino a che il pianto si acquieta? È proprio questo, appunto, il pericolo troppo trascurato, la psicoterapia, la cura sono professioni cui da sempre le donne si dedicano con l’eco di un’antica abitudine e così rischiando di non impararle mai realmente ex novo.
Sull’altro fronte, gli uomini per dedicarvisi, devono spostare il loro polo abituale, inclinandolo verso un universo altro dal mondo maschile, anche loro con l’eco millenario che in realtà sarebbe esercizio femminile. Capaci, dunque, di cominciare ad apprenderlo fin dalla base ma rischiando, a loro volta, di fraintendere una necessità di adeguarsi a un ambiente che sentono pregiudizialmente aperto alle donne. Sì che, nel tentativo di adeguare il loro intervento per avere il diritto di libera circolazione in un campo non maschile, spesso finiscono per trattenere con redini forzate la loro mascolinità operando quasi una sorta di devirilizzazione che toglie ma non aggiunge nulla di nuovo. E ne nasce quell’atteggiarsi un poco mesto e pensoso, voce controllata, spalle curve, un sentore di sofferenza tutto attorno.
Forse anche nel campo dell’esercizio clinico varrebbe la pena di aggiornare per tutti noi le criticità, le prospettive, le competenze più significative. Non solamente occupandosi dell’indispensabile attualizzazione teorica ma anche preoccupandosi di come una prassi clinica possa situarsi in un tempo che vorremmo sempre di più abitato da donne e uomini liberi, fieri, autonomi, capaci di una serena laicità curiosa nell’avvicinarsi ad altre persone, persone libere, di piena cittadinanza, mai più ‘pazienti’.

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libera professionista, psicoterapeuta, saggista, counselor, formatrice. mcristina@mckoch.fastwebnet.it, www.lacasadivetro.com, www.sistemanet.com, www.sicolombardia.it

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