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Jobs Act. Perché non dirlo in italiano?

di Francesco Varanini 01 Novembre 2014

L’8 settembre 2011 il Presidente degli Stati Uniti Barak Obama parla al Congresso a favore di un progetto di legge. La seduta del Congresso è ripresa dalle catene televisive. Secondo Nielsen Media Research il discorso del Presidente è visto da oltre 31 milioni di spettatori.

Scopo della legge: “To provide tax relief for American workers and businesses, to put workers back on the job while rebuilding and modernizing America, and to provide pathways back to work for Americans looking for jobs”. Sgravi fiscali per lavoratori e imprese, riforme, percorsi per reinserimento dei disoccupati nel mondo del lavoro.

Le parole del Presidente sono chiare, incisive. I cittadini americani  “don’t care about politics. They have real life concerns. Many have spent months looking for work. Others are doing their best just to scrape by – giving up nights out with the family to save on gas or make the mortgage; postponing retirement to send a kid to college”. I cittadini si aspettano risposte concrete. Hanno preoccupazioni quotidiane che fanno apparir lontani i discorsi dei politici. Molti di loro hanno passato mesi in cerca di lavoro. Altri stanno facendo del loro meglio solo per tirare avanti. Sono costretti a rinunciare a serate fuori casa, hanno difficoltà a pagare le bollette e la rata del mutuo…

Le parole di Obama potrebbero essere parole di Renzi. Le risposte di Renzi possono essere le stesse di Obama? Direi di no. Sono passati tre anni, l’economia italiana non è l’economia degli States, il nostro mercato del lavoro è profondamente diverso. Gli interventi urgono ora in Italia come urgevano allora negli States. Ma debbono essere diversi.

Non entro nel merito del Jobs Act di Renzi. Mi limito a dire che ci sono cambiamenti inevitabili e necessari. Nello spirito della rubrica guardo qui alle parole, anzi: dietro le parole.

Non aiuta, credo, a dar senso ad una riforma riguardante un tema così caldo, così pregante come è il lavoro, non aiuta dirlo in inglese. Non aiuta lo smaccato richiamo a ciò che fece tre anni fa il Presidente di un altro paese.

L’usare l’inglese per una importante progetto di legge italiano, il nascondersi dietro al precedente storico, invece di dar lustro all’azione politica, la sminuiscono. L’uso dell’inglese appare, più che un’apertura al mondo, una manifestazione di provincialismo. Lavoriamo con le nostre menti e con le nostre mani, noi che abbiamo una lingua materna, l’italiano. Perché mai dobbiamo dirlo in inglese. Abbiamo forse paura di dire in italiano lavoro, occupazione?

Se proprio dobbiamo accettare l’inglese, possiamo osservare come le leggi fondamentali riguardanti il lavoro, nei paesi anglosassoni, Stati Uniti compresi, si chiamano Labour Act, Employment and Labour Relations Act, Labour Code.

In questo caso, invece, Barak Obama, e noi pedestremente al seguito, parla non di labour, né di work, ma di job. Il Jobs Act di Obama non è, infatti, un Labour Act, uno Statuto dei Lavoratori, come dicevamo noi quando usavamo parole italiane, ma una legge eccezionale, destinata a far fronte a un’emergenza.

E il job non è labour in senso pieno. E’ “piece of work”, è lavoro spezzettato, frantumato; è “work done for pay”.

Un conto sono misure di emergenza, un conto è una complessiva riforma del diritto del lavoro. Dire in inglese Jobs Act non aiuta a fare chiarezza attorno alle nuove regole che ci stiamo dando.

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