“Sii intensamente orientato al risultato in ogni cosa che fai. Questa è la caratteristica primaria dei grandi realizzatori” (Brian Tracy)
“La professionalità sta nel sapere come farlo, quando farlo, e nel farlo” (Frank Tyger)
In molte organizzazioni la convinzione che le persone rappresentino il patrimonio più importante ha assunto fondamenti sempre più stabili, tanto da arrivare ad affermare e riconoscere l’importanza delle risorse umane nel raggiungimento e consolidamento del vantaggio competitivo. Il personale, soprattutto quello più impegnato sulla linea operativa è, infatti, considerato come uno dei principali motori ed uno degli stakeholders di riferimento dell’azienda, unitamente ai soci ed ai clienti. Ma perché in molti casi i risultati di esercizio sono ben lontani dagli obiettivi posti ad inizio d’anno e si accusa uno scarso livello di coinvolgimento del personale che, a sua volta, si traduce in uno scarso livello di motivazione? Possiamo ipotizzare che il difetto stia, come si usa dire, nel manico?
In altri termini, il mancato apporto del personale, in ricchezza e qualità, ora ancora più necessarie che nel passato, possiamo ipotizzare dipenda dalla carenza di un particolare tipo di guida, di leadership che il middle ed il top management sarebbe chiamato ad assicurare ai propri collaboratori per un giusto supporto nello svolgimento autonomo, responsabile, ma finalizzato, delle attività?
La comprensione delle motivazioni che spingono gli individui ad investire le loro potenzialità nel sistema aziendale diventerebbe, così, per i vertici aziendali, oltre che un corrosivo tormento un obiettivo di delicata analisi strategica. Anche perché l’intensità di queste motivazioni determina la quantità e la qualità delle prestazioni dei singoli lavoratori e, quindi, il raggiungimento e la conferma di determinati risultati aziendali.
Per ottenere il consenso dei lavoratori in vista del perseguimento di comuni obiettivi economico-finanziari diventa allora rilevante una specifica tipologia di leadership, emersa man mano che le organizzazioni si sono rese conto di quanto sia sempre meno proponibile una gestione verticistica, gerarchica, fondata molto sull’obbedienza “dipendente” di un struttura esecutiva cresciuta all’ombra di una forte guida accentratrice, e poco incline alla “responsabilizzazione” ed alla “responsabilità”.
“Responsabilizzazione” è qui intesa come atto teso a rendere qualcuno consapevole delle proprie responsabilità, a far assumere a qualcuno una responsabilità diretta su di una decisione.
Il termine “responsabilità”, che come è noto deriva dal latino “respònsus”, participio passato del verbo “respòndere”, va qui, a sua volta, inteso come capacità di rispondere delle proprie azioni e delle proprie scelte e delle relative conseguenze.
Responsabilità è qui intesa, anche, come assunzione di una gestione diretta che porta a dover rispondere, rendere conto di azioni o comportamenti propri o dei propri collaboratori sia sul piano giuridico che sul piano morale o, più semplicemente, interpersonale.
Stiamo parlando di quella che nella letteratura viene definita la “leadership manageriale”, la più scontata e che ovviamente più ci si attende da chi è chiamato ad assumere la responsabilità di una o più unità operative, funzioni o servizi.
Ha “leadership manageriale” chi:
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ai sistemi contabili, di pianificazione e di budgeting sa combinare una visione più olistica dell’azienda, con una gestione del personale che punti al suo sviluppo e coinvolgimento;
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sa bilanciare gli aspetti, come si suol dire, hard (struttura, risultati della contabilità generale e del controllo di gestione, procedure, processi) con quelli soft, gravitanti intorno alla relazione personale (considerazione, stima, attenzione, riconoscimenti, gratificazione morale);
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riesce a fare sintesi tra istanze degli shareholders (azionisti) e quelle degli altri stakeholders (fornitori, clienti, dipendenti, enti, autorità e organismi di riferimento) in ossequio ai più puri principi di responsabilità sociale.
Questa tipologia di leadership va maturata nel tempo e punta su di una elaborata politica di relazioni con il personale, per certi versi molto innovativa, che, attraverso un mirato sviluppo professionale, tenti di tenere insieme aspettative individuali e finalità dell’organizzazione/impresa.
Il suo ruolo è quello di creare dentro l’organizzazione un clima, una cultura e un contesto in cui la realizzazione individuale e l’arricchimento dell’impresa si armonizzino sempre più per lo sviluppo di una comunità coesa, molto operosa, proattiva, dinamica e creativa.
Il tutto passa per un’impostazione del rapporto capo/subordinato basato sull’estrema fiducia.
Qualche volta, magari, ci è stato rimproverato di non essere dei leader, di non avere sufficiente leadership, quando invece, con grande probabilità, volevano semplicemente dirci di aver dimostrato insufficienti capacità manageriali.
Leadership e capacità manageriali sono due cose distinte, anche se, poi, chi è chiamato a ricoprire posizioni di responsabilità può e deve padroneggiare questi due distinti e complementari sistemi di azione, entrambi necessari per il successo in un contesto aziendale nuovo e di mercato sempre più complesso e instabile.
A me, invece, è capitato spesso, quasi a conferma di quanto ipotizzato in apertura, di confrontarmi con persone che ricoprivano livelli manageriali di tutto rilievo arroccate su posizioni ormai superate. Manager conservatori che non intendevano modificare o sfidare lo status quo perché era quello che aveva permesso loro di scalare le gerarchie aziendali, spesso senza avere grandi meriti se non quello di essere, in modo ruffiano, allineati e coperti, inquadrati in vecchi modelli di gestione, soprattutto dei collaboratori.
Ci sono, tuttavia e per fortuna, tanti altri responsabili di unità operative o d’azienda illuminati. Vere guide, che non esitano a mettere in atto ogni possibile strumento di sviluppo organizzativo in grado di liberare pienamente il potere ed il potenziale del loro personale.
Di questi ne ho conosciuti molti, rimanendo in ottimi rapporti, come quelli alla testa di un gruppo di aziende di servizi alla persona che, dopo aver costatato gli effetti positivi di un primi ciclo di formazione e consulenza indirizzato alla figure apicali, ha ricommissionato un secondo modulo esteso a tutto il personale, a prescindere dalle responsabilità, ed agli stakeholders più prossimi.
Quel gruppo aziendale, impegnatosi a creare un ambiente capace di stimolare la crescita di tutte le persone che vi lavorano, già dopo la prima esperienza formativa/consulenziale, ha iniziato a registrare novità incredibili ed un cambio di atteggiamento che non ha tardato a creare valore aggiunto: i suoi responsabili hanno maturato quell’auspicata “leadership manageriale” ed i loro collaboratori hanno iniziato a lavorare e collaborare in modo più convinto; cambiamento che non è sfuggito ai clienti.
In altre realtà aziendali, invece, si registrano sempre più diffusi malesseri, eventi che non possono non essere interpretati come “incubazione” di una disfunzione organizzativa, di un problema, fosse anche solo attribuibile al così detto “stress lavoro – correlato”.
In queste situazioni, un’analisi del clima aziendale, scevro da ogni possibile condizionamento, magari all’interno della stessa valutazione dello “stress lavoro-correlato” dovuta per legge, potrebbe dare un significativo apporto nella predisposizione di misure correttive tese ad evitare eventi maggiormente dannosi o pericoli più gravi.
In queste realtà sembrerebbe diffuso un certo disagio da “flussi operativi ed informativi non governati” e da “richieste dell’ambiente lavorativo eccedenti le capacità individuali”, con responsabili di unità organizzative privi di quella accennata “leadership manageriale”, quindi non in grado di “gestire” e “filtrare” le diverse sollecitazioni dei vertici aziendali e gli eccessivi carichi di lavoro, con priorità spesso contrastanti e mancanza di chiarezza nella pianificazione operativa giornaliera.
Se ci sforzassimo tutti di non proporci come passivi e mediocri esecutori di volontà, di ordini dei superiori, ma come attori responsabili che si impegnano a superare quell’infantilismo piatto e conformista, forse tutto sarebbe meno complicato.
Le organizzazioni hanno sempre più necessità, a tutti i livelli, di personale competente, creativo, capace di confrontarsi apertamente sui problemi e di rispondere di persona di eventuali scelte sbagliate, fatte in autonomia.
In una situazione di risorse scarse, in cui si fa dell’efficacia e dell’efficienza due indici fondamentali di misurazione delle possibilità di sopravvivenza di una compagine in un mercato sempre più competitivo, chi non sa assumersi e non si assume delle responsabilità si autodichiara superfluo.
Spesso la capacità di prendere decisioni che rientrano nell’ambito delle proprie aree di responsabilità, in autonomia ed in contrasto con quelle più gradite ai superiori, assumendosene le conseguenze, viene valutata fattore di rallentamento o peggio ancora sintomo di malcelata insubordinazione.
A questa viene preferita la più comoda e piatta fedeltà.
Ma una cosa è essere dei leali collaboratori una cosa dei fedeli servitori. La differenza tra lealtà e fedeltà, infatti, non è solo lessicale.
Leale è quel collaboratore onesto e sincero, che parla ed agisce con sincerità e franchezza. Fedele può anche essere chi, per viltà ed interesse, si assoggetta alla volontà del superiore e lo adula o, peggio ancora, chi assume un atteggiamento falso, servile, ipocrita ed intrigante teso solo ad ottenere il favore del proprio capo e superiore.
Ritmi di lavoro asfissianti, scadenze e urgenze scandiscono le giornate lavorative ormai di tutti noi. Il tempo diventa di sicuro la risorsa più preziosa. Ragione per la quale la prima cosa che viene richiesta ad un responsabile di unità organizzativa, di funzione o si servizio, che sia un buon coordinatore di risorse, è quello di saper gestire il tempo.
Tant’è che la mancanza di tempo per completare i lavori alla data fissata, per aggiornarsi, per curare le relazioni con i clienti è diventata la vera sfida con cui tutti i lavoratori si trovano oggi a confrontarsi, insieme allo stress.
Per qualcuno fonte di stress può essere un capo despota, ciecamente obbediente al suo immediato superiore gerarchico o un capo che più semplicemente si fatica a seguire, per altri fonte di stress può essere il collega o la collega ruffiano/na che mette zizzania e trasforma l’ufficio in un luogo insopportabile.
Lo stress ha mille volti: può essere anche la velocità, le aspettative tradite, la mancanza di tempo, una pretesa qualità sempre più elevata; è tutto quello che crea noia e demotivazione, che può essere superato con un maggior coinvolgimento (quello che gli anglosassoni chiamano “engagement”).
Tre le azioni che i responsabili di unità e coordinatori di risorse, dotati di quella richiamata “leadership manageriale”, possono compiere per incrementare il livello di coinvolgimento, lo sviluppo organizzativo annovera:
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la promozione all’interno dell’unità organizzativa di un clima favorevole allo scambio di opinioni e all’ascolto, istituendo momenti di confronto a livello individuale e di gruppo;
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la messa in discussione di prassi consolidate o di decisioni già prese qualora i feedback raccolti suggeriscano altrimenti (questo, infatti, non intacca la leadership ma, anzi, fa sentire i dipendenti più ascoltati e accresce stima e fiducia nel superiore, innescando una spirale positiva);
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l’incentivazione alla multifunzionalità attraverso la formazione e l’arricchimento dei compiti affidati per mettere ciascun collaboratore al centro di un percorso di crescita, senza necessariamente ricorrere a promozioni.
Non va peraltro trascurato un dettaglio non secondario: quando parliamo di demotivazione, di stress e di gestione del tempo, in verità parliamo di gestione di noi stessi, di qualità della nostra vita soprattutto lavorativa, di nostro equilibrio.
Ragione per la quale a noi, poi, per parte nostra, spetta:
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conquistare un elevato livello di consapevolezza sui nostri obiettivi e limiti;
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imparare a costruire con lucidità e sicurezza il quadro delle priorità, sviluppare consapevolezza sulle leve da utilizzare per fronteggiare le urgenze e gli imprevisti;
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dotarci di tecniche e strumenti per migliorare la capacità di organizzarci, di pianificare e di operare con efficienza all’interno dell’unità organizzativa di appartenenza;
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attivare il nostro personale piano di miglioramento, rispetto alle criticità individuate.
Esistono, dunque, diverse vie di uscita per riprendere il controllo della nostra vita professionale, indipendentemente dal fatto di essere dei “coordinatori” o dei “coordinati”.
Quella maestra è rappresentata dal passaggio dalla logica dell’obbedienza a quella della responsabilità che:
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è parte significativa di quella specifica “leadership manageriale” qui evocata e va a comporre il contenuto ed il contesto del nostro lavoro;
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ci permette di riprendere il controllo delle nostre giornate e organizzare efficacemente il nostro lavoro, a condizione di ritagliarci una sempre maggiore autonomia (la parte gestionale del nostro ruolo), che ovviamente non significa totale indipendenza, essendo ognuno di noi vincolato dalla mission dell’organizzazione di appartenenza e dalla rispondenza ad una gerarchia aziendale.
Autonomia significa, tra l’altro, imparare a ragionare ed operare per priorità vere e non più per urgenze false ed imposte, imparare a distinguere ciò che è importante per la tua azienda da ciò che è solo urgente per il tuo superiore, non dimenticando mai, come sosteneva Dwight D. Eisenhower che “le cose davvero importanti sono raramente urgenti e le cose urgenti sono raramente davvero importanti. Le cose poco importanti diventano urgenti per la mancanza di pianificazione”.