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Il ruolo del manager nell’impresa armonica. Dialogo tra me stesso e uno studioso cinico e pragmatico

di Francesco Varanini 25 Febbraio 2019

(Questo scritto è apparso in: AA.VV. Scritti seri e semiseri in onore di Claudio Baccarani, Giappichelli, 2018).

Ho condiviso con Claudio Baccarani l’amore per forme narrative inusuali. Baccarani -anche riflettendo su temi aziendalistici e manageriali- ha narrato per aforismi. Io ho spesso usato la poesia: credo che l’essenza del mio saggio Contro il management1 sia compiutamente riassunta nella poesia che ho posto in appendice: “Ho visto lampi d’ira contratta dietro gli occhiali d’oro/…/ ho visto le loro mani curate/ incapaci di stringere mani/ e le loro dita serrate/ fino al bianco delle nocche/ attorno a penne Montblanc/ (…)”. Su invito di Baccarani, abbiamo scambiato idee -anzi: costruito insieme conoscenza- sotto forma epistolare. Dunque, anche in questo mio contributo ad una riflessione collettiva sul pensiero di Baccarani, non posso che usare una forma non troppo usuale.

Ritengo che una delle proposte più stimolanti di Baccarani risieda nella sua visione di una impresa armonica. Altri autori hanno proposto visioni contigue, per molti versi sovrapposte. Luciano Gallino parla di impresa responsabile (a proposito della Olivetti).2 Piero Trupia parla di impresa conviviale.3 Luigino Bruni parla di impresa civile.4 Anna Grandori parla di societas.5 La proposta di Baccarani mi pare più precisa, ed il ricorso al concetto di armonia particolarmente accattivante.

In varie occasioni Baccarani ha parlato di questo modello di impresa. A partire, come lui stesso ricorda, dal 1990: un modello di impresa “che ho avuto la ventura, il piacere e, forse, la fortuna intellettuale di presentare, non senza qualche timore, al lontano convegno di Sinergie, nel 1990, a Bari”.6

Armonia: ‘accordo’, ‘proporzione’, ‘congiunzione’, ‘concordanza’, ‘corrispondenza’, ‘concordia’. La radice indeuropea ar sta per ‘tenere insieme’, congiungere’. L’armonia ci appare così connessa ad arto, arma, armento. E anche, o forse sopratutto, ad arte.

Mi piace quindi ricordare qui che Baccarani, tentando una definizione di ciò che chiamiamo Management, consapevolmente evita di “tirare in ballo la delicata parola scienza”, e sceglie di usare invece la parola arte. “Il Management è l’arte della produzione di fiducia e della costruzione del futuro desiderato nel contesto del governo dell’impresa.7

Cercherò quindi qui di offrire un punto di vista sulla figura del manager, usando il dialogo: una modalità che si discosta alquanto dalla formale forma degli articoli accademici, ahimè troppo spesso caratterizzati da una forma standard, che non di rado deprime il contenuto.

Un dialogo tra me stesso ed un ipotetico studioso della materia, uno studioso che mi è anche amico, ma che per nulla condivide la mia opinione.

L’amico formatore e consulente cinico e pragmatico

Tu credi erroneamente che i manager possano essere intesi come missionari. Non è così: i manager sono, e debbono essere, mercenari. Te lo dico scherzosamente: sei un rousseauiano convinto dell’intrinseca bontà dell’uomo. Io invece un hobbesiano senza speranze, che non crede in niente. Ma proprio per questo, perché non spero e non credo, per questo capisco meglio di te come si comporta, anzi: come è giusto si comporti un manager.

Francesco Varanini

Amico mio, intanto modestamente ti ricordo che per una parte della mia vita sono stato manager… Tu, docente e consulente, hai certo avuto modo di studiare ed osservare da vicino. Ma non hai vissuto sulla tu pelle certe situazioni… Ricevere indicazioni contraddittorie, muoversi in un regime di vincoli che sembrano ridurre all’impotenza, dover decidere in temi strettissimi, e poi anche ,in queste condizioni, motivare le persone che lavorano con noi… Per quanto mi riguarda, se non avessi lavorato come manager, non credo me la sentirei di fare il formatore e il consulente, non credo me la sentirei di scriverne.

E poi, veramente, non credo di partire da una posizione di principio, da una posizione ideologica. Parlo di esperienze fatte in prima persona. E di quello che oggi vedo, come consulente, come formatore… direi anche come amico e confidente di manager. Tra le tante difficoltà che il manager quotidianamente affronta, la solitudine non è l’ultima. Ci sono cose che vede, e che talvolta è costretto a fare… Cose di cui non può parlare a nessuno.

L’amico

Ma tu sostieni che i manager dovrebbero… Sostieni che il lavoro del manager consiste in un agire mosso da un’etica, da un personale senso di consapevolezza. Non possiamo ragionevolmente aspettarci questo. Ci conviene contentarci di un manager che svolge con attenzione i compiti assegnati, un buon esecutore. L’impresa esiste, e può sperare di esistere in futuro, solo perché c’è l’imprenditore, una proprietà, un capitale di comando, che persegue un proprio interesse. L’interesse dell’imprenditore, e più in generale di chi ha investito in quote di capitale dell’impresa, consiste nel cercare il profitto. Non serve essere missionari, serve essere buoni mercenari, al servizio del generale che è l’imprenditore, o l’amministratore delegato.

F.V.

C’è in quello che dici una ambiguità che non posso accettare. Non puoi dirmi ‘l’imprenditore, o l’amministratore delegato’. C’è il caso in cui l’imprenditore è anche amministratore delegato. In questo caso basta dire ‘imprenditore’. Altrimenti l’amministratore delegato è un manager, il primo dei manager.

Venendo ai manager, ti concedo che l’opposizione tra ‘missionario’ e ‘mercenario’ è efficace. Mette brutalmente in campo la questione del ruolo del manager. Ti posso anche seguire nel lasciare da parte, per il momento, la questione della missione dell’impresa. Accettiamo che l’impresa abbia il solo scopo di generare profitto. Accetto dunque il manager mercenario. Il mercenario ha il ruolo di massimizzare il profitto. Tu sostieni che il manager per massimizzare il profitto non dovrà far altro che aderire il più esattamente possibile alle aspettative, agli indirizzi espressi dall’imprenditore. Io invece sostengo che il manager così, ridotto ad agente di un padrone, finisce per essere troppo limitato nell’agire. Gli manca l’aria, viene meno la sua libertà. Solo se gode di un autonomo spazio d’azione può agire creativamente, portando alla luce ricchezza, valore… Valore che si manifesterà innanzitutto come profitto. Insomma, per un manager è molto meglio avere, molti padroni, piuttosto che uno solo.

L’amico

Stai parlando della Teoria degli Stakeholder. Non voglio certo negare la responsabilità sociale dell’impresa. Ma questa si afferma come conseguenza del perseguimento da parte dell’imprenditore, del proprio interesse. La Teoria degli Stakeholder è pericolosa, perché…

F.V.

Lascia perdere le teorie. Stiamo alla pratica, a quello che vediamo facendo il nostro lavoro. Anche tu sai bene che i manager creano molto meno valore di quanto potrebbero. Non lo creano perché non sono liberi, perché non hanno spazi di autonomia. E se li hanno, allenati ad essere mercenari, non li sanno occupare. I manager non sono liberi. Perché non possono dire di no al padrone. Se invece il manager fosse costretto a tener conto di interessi diversi, se invece di un sono padrone ne avesse diversi: l’imprenditore o shareholder, certo, ma anche i lavoratori, i fornitori, i clienti… Certo sarebbe più libero di agire. Se potesse dire qualche no di più al padrone, allo shareholder, farebbe meglio l’interesse del padrone, o shareholder…

L’amico

Ma tu così metti in discussione la centralità del profitto come indicatore della salute di una impresa…

F.V.

Sono contrario al principio secondo il quale possa esistere un indicatore principe, o meglio un solo indicatore della salute e del rendimento di un sistema complesso come è l’impresa. Ma no, non metto in discussione il profitto. Sto semmai pensando a come massimizzare il profitto. Semmai mi preoccupo di non uccidere l’organismo, il sistema vivente che lo genera.

Rispondimi a una domanda: creazione di valore ed estrazione di valore, per te sono la stessa cosa?

L’amico

L’imprenditore o shareholder -cerco di usare i termini che hai appena usato- è il dominus dell’impresa. Il profitto è suo e può deciderne l’impiego a suo piacimento. Se si perde di vista questo principio l’impresa perde la sua bussola. Potrei dire, cessa di essere una impresa. Diventa qualche cos’altro. Un carrozzone, un ente di beneficenza, una Ong… Conosci bene la storia delle partecipazioni statali…

F.V.

Non scaldarti così, non c’è motivo. Quello che voglio dirti è una cosa che conosci benissimo. Mi riferisco ad una situazione che si è andata affermando sempre più in anni recenti. I rendimenti finanziati disincentivano ad investire in attività produttive o di servizio. C’e sempre qualche prodotto finanziario che a parità di rischio, offre un rendimento più alto del profitto garantito dall’attività imprenditoriale. Così accade che l’imprenditore, prima di guardare alla salute dell’impresa, prima di pensare agli investimenti, prima di accettare costi che pure appaiono necessari per mantenere in vita l’impresa, decide qualche dovrà essere il profitto. Il ragionamento sugli investimenti e sui costi viene dopo… Insomma, prima si decide quanto valore si intende estrarre quell’anno, poi tutto il resto. Avrai osservato anche tu come è cambiato in linguaggio, il linguaggio della consulenza standard globalizzata, il linguaggio accettato e fatto proprio dai manager mercenari. Fino a qualche anno fa si parlava di creare valore. Adesso si parla di estrarre valore. La differenza sta nel rispetto di quell’organismo vivente che è l’impresa. La creazione del valore, perseguita anche con una severa attenzione ai costi, cercata attraverso il miglioramento continuo, lo snellimento… questa è una cosa rispettosa. Di questo deve occuparsi il manager. Ma estrarre valore non è la stessa cosa… questo è distruggere l’impresa. E i manager oggi si trovano sempre più spesso a dover fare questo. Non possono farlo con piacere, con tranquillità. E’ una cosa contronatura.

L’amico

Sei il solito esagerato. Prendi dei casi estremi e li generalizzi. Anch’io ho visto qualche situazione del genere, ma sono casi limite. Gli utili sono una cosa seria, non piovono dal cielo. Il rischio lo corrono solo gli azionisti, non i lavoratori, i clienti e i fornitori. Nella maggioranza dei casi…

F.V.

Non stiamo a cavillare. Sai bene che parlo di situazioni che, con maggiore o minore pesantezza, toccano ogni impresa.

Accenno al rischio, e poi cerco di esporti di nuovo il mio argomento. Rischi connessi all’impresa, in realtà li corre ognuno degli stakeholder. I fornitori, i clienti, e anche in senso lato gli ambienti geopolitici dove l’impresa è insediata… Rischi li corrono i lavoratori, che sono visti come uno dei costi più facilmente comprimibili, in vista dell’estrazione del valore. Ma non voglio calcare su questo punto. Il rischio fa parte del gioco.

Ora, tornando alla creazione e all’estrazione di valore: lo so che la Teoria degli Stakeholder non ti piace. Tu preferisci la Teoria dell’Agenzia, il manager come agente di un Principal… Ma come ti dicevo lasciamo perdere le teorie e guardiamo la realtà che abbiamo sotto gli occhi. Intanto possiamo dire in italiano: ‘portatori di interessi’. Ed eccoci a azionisti, lavoratori, clienti e fornitori… Tutti loro sono interessati alla creazione di valore: tutti vi contribuiscono, tutti hanno motivo di trarne qualche vantaggio. La creazione è opera di tutti, l’estrazione è opera di un solo portatore di interessi. L’imprenditore che sceglie di estrarre valore, che sceglie di spremere il limone, di mungere la vacca fino a sfinirla, finisce per distruggere, al di là del breve periodo, la fonte dei suoi profitti.

Ti dicevo che della Teoria degli Stakeholder non è che mi importi molto: perché in fondo si tratta di una finzione. Si finge sulla carta che tutti gli Stakeholder siano uguali, per nascondere una realtà ben diversa. Si parla di per esempio di Corporate Social Responisibility come manifestazione di attenzione verso portatori di interessi che possono essere i dipendenti, le loro famiglie, comunità locali… Ma poi si vede che ad ostentare pubblicamente iniziative di Corporate Social Responsibility spesso sono proprio imprese che perseguono l’estrazione del valore. Così la CSR finisce per essere nient’altro che una foglia di fico. La Fattoria degli animali di Orwell propone un buon esempio. In linea di principio gli animali sono tutti uguali, ma poi i maiali dichiarano che loro sono più animali degli altri.

Meglio pensare a politiche di governance concrete. Per esempio, se nei Comitati retributivi che su delega dei Consigli di amministrazione decidono le retribuzioni di manager e dipendenti non ci sono rappresentanti dei lavoratori…

L’amico

Lo so, si dice: ‘in Germania la cosa funziona, perché non dovrebbe funzionale da noi?’. Là funziona perché i sindacati sono affidabili, sanno far di conto senza paraocchi ideologici, e concordano ragionevolmente sulla percentuale di utili ripartibili ai lavoratori. Da noi quella percentuale sarebbe sempre inferiore al ‘dovuto’, e dal sospetto si passerebbe alla rivendicazione. Meglio non fare confusioni.

Le forme di cogestione richiedono una cultura sindacale e un’attitudine dei lavoratori che non sono presenti da noi. Per il buon andamento delle imprese serve, e avanza, la corretta informazione e la negoziazione tra le parti, dotate ambedue della fairness, la preziosa virtù di stare ai patti.

F.V.

Certo, se siamo qui a ragionare di un management capace di produrre di fiducia e di costruire il futuro, stiamo chiamando all’appello anche i Sindacati. Su questo non ci piove. Dobbiamo purtroppo dire che che i Sindacati -sto generalizzando, ovviamente- vivono in un passato che non c’è più. Non possiamo più immaginare un mondo di lavoratori con contratti a tempo pieno, a tempo indeterminato. E anche le cosiddette forme di lotta spesso non hanno più senso: fare sciopero in una situazione in cui gli impianti sono sottooccupati, in cui si è sempre vicini alla soglia della sovrapproduzione, è solo un favore all’azienda.

Ma qui stiamo cercando di ragionare su come tutti gli interessati alla redistribuzione del valore potrebbero, lavorando insieme, individuare sistemi premianti adeguati, per tutti gli attori.

L’amico

I lavoratori, dall’operaio al manager, vanno pagati in funzione delle capacità e dell’apporto allo sviluppo dell’impresa. È corretto che siano protetti da un welfare aziendale integrativo di quello pubblico. E’ bene che la politica del personale sia innovativa e abbia un effetto attrattivo delle giovani leve e degli specialisti sul mercato. Ma le prerogative imprenditoriali e manageriali non vanno condivise con i sindacati, la governance è compito solo di chi ha il mandato degli azionisti e ha ingaggiato i manager.

F.V.

Tu torni sempre sulle tue posizioni… Come io del resto torno sulle mie… Ma mi permetto di notare una contraddizione: prima parli di lavoratori, dall’operaio al manager, assimilando quindi i manager agli altri lavoratori, tutti distinti dall’imprenditore dominus e in fondo esclusivo autore delle scelte strategiche. Poi parli di prerogative imprenditoriali e manageriali, avvicinando quindi i manager all’imprenditore.

Ecco, io credo il ruolo del manager sia diverso da quello dell’imprenditore. L’imprenditore è mosso da un interesse, da un punto di vista. Il manager è chiamato a trovare equilibrio tra diversi interessi. L’interesse dell’imprenditore stesso, l’interesse della famiglia di eredi dell’imprenditore, l’interesse di chi finanzia l’impresa, gli interessi dei lavoratori, dei clienti, dei fornitori, degli abitanti dei luoghi dove l’impresa è insediata…

Anche nell’interesse dell’imprenditore, il manager dovrebbe godere di margini di autonomia. Se il manager in una qualche misura si sente responsabile anche nei confronti dei lavoratori e degli altri portatori di interessi, svolge meglio il suo lavoro, è più libero di fare scelte. Scelte per il bene dell’impresa, quindi anche dell’imprenditore.

Sai bene che siamo lontani da tutto questo. Il manager è pagato in funzione dell’interesse dell’imprenditore, o meglio, come già prima cercavo di dirti: è pagato in funzione del valore dell’impresa non in quanto ente che produce beni o servizi, ma invece dell’impresa come ente che produce risultati finanziari. E’ pagato in funzione del valore di borsa di un titolo; è pagato con stock options…

L’amico

Sono contrario alle stock options, come sono contrario all’azionariato dei dipendenti, di ogni ordine e grado. Non credo che la partecipazione agli utili e il possesso delle azioni servano per fidelizzare, come usa dire, i dipendenti all’azienda. Per esperienza ho fiducia nei mercenari affidabili… Credo quindi nei premi di produttività, a tutti i livelli. I premi alla produttività sono lo strumento più efficiente per la crescita dell’impresa.

F.V.

Sono d’accordo. Purché si trovino indicatori efficaci per descrivere la ‘produttività’. La ‘produttività’, credo, andrebbe intesa non solo come risultato operativo, risultato immediato, d’esercizio o di breve periodo, ma più in generale come miglioramento continuo della capacità di generare valore. Anche ‘produttività’ nel senso di generazione di innovazioni. Dobbiamo pensare anche agli asset immateriali, ciò che può generare valore in futuro: innovazione, appunto, formazione…

Per questo dico che la produttività non può essere intesa come una metrica scontata, facile da rilevare…

L’amico

Ma non ci sto a rincorrere delle chimere. Le metriche le conosciamo. La misurazione delle performance è una disciplina consolidata. E poi, al di là di tutte le filosofie, tutto finisce nella contabilità e nel bilancio. Contabilità analitica…

F.V.

Io invece credo che si debba andare verso una pluralità di metriche. Dovremmo pensare che la metrica contabile è una metrica alla quale potrebbero affiancarsi altre metriche. Potremmo anche dire che ogni organizzazione dovrebbe pensare a costruire un proprio sistema di metriche.

Certo servono metriche che permettono la comparazione tra i risultati di di imprese diverse -questo le metriche contabili lo fanno benissimo-.

Ma oggi è difficile -qui in Italia in particolare- immaginare di appoggiare il vantaggio competitivo della nostra impresa su costi più bassi. Il vantaggio sta nella elasticità, nella capacità di innovazione, sta nella differenza. Le metriche contabili non sono le più adatte per portare alla luce le differenze.

Differenze nella cultura, nella storia, nei valori, nell’etica, nella forma organizzativa, nelle conoscenze… Si devono costruire delle metriche atte a portare a sintesi quelle che sono le caratteristiche specifiche della nostra organizzazione.

L’amico

Non ti seguo. Mi sembrano fughe in avanti. Il manager deve stare con i piedi per terra.

F.V.

Sai bene che non nego che il primo impegno del manager è guardare a costi e ricavi, al conto economico. Ma non può fermarsi tutto lì. Non basta.

Avevamo detto che volevamo ragionare a proposito del manager del futuro, o del futuro del manager…

Penso che il manager dovrà continuare a fare programmi e consuntivi. Ma penso che tutto questo dovrà occupare una parte via via sempre più ridotta del suo tempo e della sua attenzione. I programmi, nel tempo in cui viviamo, e nel tempo che ci aspetta, rischiano di essere superati prima di arrivare a compimento. Il manager deve essere capace di scoprire in questo momento una soluzione a problemi che non c’è tempo per studiare a fondo. Il manager oggi deve essere capace di trarre beneficio dalle emergenze. Emergenza vuol dire ‘qualcosa di nuovo che viene alla luce’. Il nuovo offre sempre una qualche opportunità. Ma bisogna essere disposti a vederla.

E’ un po’, se mi è permesso, l’idea dell’allibratore che sulla base di informazioni scarse scommette sul fatto che la corsa la vincerà quel cavallo lì.

L’amico

Ma questo è il ruolo dell’imprenditore. E’ una sua prerogativa…

F.V.

Spero vivamente che continuino ad esserci imprenditori che fanno il loro lavoro, investendo in imprese invece di arrendersi a cercare rendite finanziarie. Dove gli imprenditori ci sono, il manager deve essergli vicino. Ma sempre restando disposto a contraddire l’imprenditore, a influenzarlo alla luce dell’attenzione ai diversi interessi in gioco.

Dove poi l’imprenditore, per un motivo o per un altro, non c’è, il ruolo del manager cercatore di equilibrio tra interessi diversi è ancora più chiaro.

Magari un’altra volta parliamo dell’imprenditore. Adesso stiamo parlando del manager. Capisci perché mi pare riduttivo dire al manager che da lui ci aspettiamo solo che sia un buon mercenario?

1Francesco Varanini, Contro il management. La vanità del controllo, gli inganni della finanza e la speranza di una costruzione comune, Guerini e Associati, 2010.

2Luciano Gallino, L’impresa responsabile. Un’intervista su Adriano Olivetti, Einaudi, 2001.

3Piero Trupia e Susanna B. Stefani, L’impresa conviviale. Protagonisti, regole e governance del modello italiano, Egea, 2003.

4Luigini Bruni, L’ impresa civile. Una via italiana all’economia di mercato, Università Bocconi, 2009.

5Anna Grandori, 10 tesi sull’impresa. Contro i luoghi comuni dell’economia, il Mulino, 2015.

6Claudio Baccarani, “Per la diffusione dell’impresa armonica”, Impresa progetto, 1, 2015. Claudio Baccarani, “Qualità e governo dell’impresa”, Atti del 3° convegno di Sinergie “La qualità nei percorsi competitivi delle imprese”, Bari, 25 ottobre 1991, Sinergie, Quaderno 7, dicembre 1991.

7Claudio Baccarani, “Contro il management, per una costruzione comune alla ricerca dell’impresa armonica”, Sinergie, volume 28, fascicolo 83 (2010), p. 210.

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