Contributi

Edward Bond e l’etica dell’immaginario

di Francesco Varanini 04 Maggio 2019

In the Company of Men, opera teatrale di Edward Bond, scritta tra il 1987–88, è messa in scena nel gennaio 2011 presso il Piccolo Teatro di Milano per la regia di Luca Ronconi, con Riccardo Bini, Giovanni Crippa, Marco Foschi, Paolo Pierobon, Gianrico Tedeschi, Carlo Valli. Bruno Bonsignore e Francesco Varanini, a nome di Assoetica, hanno dialogato a proposito di etica del lavoro e degli affari, in teatro, prima della rappresentazione di venerdì 4 febbraio 2011.
Questo articolo è apparso su Persone & Conoscenze, 66, febbraio 2011.

L’arte ha molto da insegnare a chi si occupa di impresa: il libero sguardo dell’artista ci permette di osservare, per differenza, la frequente miopia di imprenditori e di manager.
Il linguaggio dell’arte riguarda in modo speciale chi, in ambito aziendale, si trova a lavorare con le persone, e per le persone. Tra le arti, peculiare è il caso del teatro. L’analogia tra la scena teatrale e la scena sulla quale viviamo quotidianamente la nostra vita di lavoro è evidente.
Piuttosto che tentare di replicare entro i confini della formazione ciò che il teatro ci propone, meglio è lasciare la parola a chi fa del teatro la propria professione. Avendo in mente temi attualissimi, lasciamo dunque la parola al drammaturgo inglese Edward Bond.

Una improvvisazione, nel corso di un seminario tenuto all’Università di Palermo agli inizi degli anni novanta, ritorna spesso nelle conversazioni autobiografiche di Edward Bond.
Agli studenti è chiesto di vivere l’esperienza di chi è chiamato ad uccidere il bambino di una popolazione nemica. E poi di vivere l’esperienza di chi uccide un bambino del proprio paese.
E’ più facile uccidere il figlio di un nemico o un proprio figlio? E’ più facile sopprimere con la violenza una persona lontana da noi, lontana dalla nostra cultura e dal luogo in cui viviamo, o uno di noi?
Qui troviamo, messo in scena -ma non sul palco lontano di un teatro, messa in scena invece in un luogo dove noi stessi siamo attori-, qui troviamo forse il nucleo dell’opera drammaturgica di Bond, il caos da cui origina la sua arte.
Qui troviamo anche il suo messaggio formativo. Non una formazione già data, programmata, recitata su una scena da professionisti diversi da noi. Non -da un lato- autori teatrali, registi, attori, formatori, educatori specializzati, e dall’altro passivi fruitori. Ma persone che condividono il momento e compartecipano all’evento. Se è vero teatro, se è arte, l’esperienza coinvolge coloro che chiamiamo ‘spettatori’: sono anch’essi partecipi della ‘messa in scena’ generatrice di esperienza.
Bond ci sbatte in faccia il dilemma etico nella sua versione più radicale. Noi o gli altri. La responsabilità ricade in ogni caso su di noi, non c’è nessun potere lontano -nessuna classe politica, nessun manager, nessuna ‘figura preposta’- che possiamo chiamare in causa senza chiamare in causa anche noi stessi. Siamo noi che uccidiamo i bambini. Siamo noi, ognuno di noi, i responsabili della fame, della disoccupazione, dello sfruttamento, della guerra.
Com’è nel suo stile, non si perde in mediazioni ed eufemismi, già in Saved, il suo primo scandaloso testo teatrale, Bond ci dice che siamo noi, ognuno di noi, a negare la vita, uccidere il bambino, la persona più innocente che ci sia dato di immaginare.

Probabile autobiografia di una generazione
Se i responsabili di ciò che accade nel mondo siamo sempre noi, non possiamo prendere le distanze dalla altrui vicenda biografica. Siamo anche noi originari, come Bond, di un quartiere operaio della periferia londinese. Siamo nati con lui, così come ci racconta in forma di poesia, all’otto e mezza della sera di mercoldì 18 luglio 1938, durante un temporale. Un’ora prima della mia nascita mia madre lavava le scale perché fossero pulite quando la levatrice sarebbe salita.
L’Inghilterra che è il rovescio dei fasti imperiali, del cosmopolita e metropolitano lusso londinese, dell’orgoglio nazionale churchilliano, l’Inghilterra popolare, proletaria, povera, squallida, non ci è difficile concepirla: la conosciamo per via di tanti film e tanta letteratura. Ma è facile per noi considerarla un mondo lontano. Bond però -non un inglese che parla di una storia locale, ma artista che legge con occhio rigoroso il presente- ci impedisce di prendere le distanze.
L’arte pone il tema dell’umanità: viviamo tutti la stessa vita, a tutti noi compete difendere la vita. Eppure abbiamo sotto gli occhi le facili, diffuse elusioni, le scappatoie legittimate dalla moda. Lungi dal farci carico delle responsabilità della vita futura, noi coltiviamo la nostra pigrizia e la pigrizia altrui vivendo nella finzione, nell’apparenza, vendendo merce in cui non crediamo, turandoci il naso viviamo tra escrementi e immondizie, autoconvincendoci e peggio dandoci da fare per convincere gli altri che è impossibile fare altrimenti.
Di questo atteggiamento di negazione della vita sono purtroppo maestri uomini politici e manager. Li vediamo incapaci di accettare la loro stessa vita personale. Che cosa è se non rifiuto della vita il nascondersi dietro maschere e trucchi, il non accettare il passare dell’età, il nostro stesso corpo, il cercare di mutarlo con un uso distorto della medicina.
E così come ci si vuole illudere di aver un altro corpo, in virtù dello stesso processo di negazione, rifiutiamo il lavoro. Ci si vergogna di dire che amiamo il nostro lavoro, e peggio: pretendiamo di insegnare agli altri a non investire affettivamente nel lavoro.
Ed ecco che Bond ci colpisce con la violenza della realtà, e ci impedisce di distogliere lo sguardo.
La tragedia non può essere impunemente sostituita dalla farsa. Se non vogliamo essere personaggi di una farsa.
L’orrore, che è violenza perpetrata nei confronti della vita, va guardato senza indulgenza. Così come senza indulgenza dovremmo guardarci allo specchio, ed accettare, con l’età, il mutare del nostro aspetto.
Come Bond ci ricorda, siamo cresciuti, tutti noi, sotto i bombardamenti, siamo tutti cittadini di Auschwitz e di Hiroshima, cittadini di un mondo umano che resta ancora da costruire.
La guerra, vista da una parte sola, può facilmente apparirci guerra di liberazione, eroica resistenza ad un totalitarismo criminale e negatore del diritto, lotta contro il male. Ma Bond ci smonta ogni difesa, ci costringe a vivere la guerra dalla parte di chi ci è facile bollare come nemico. Ci avvince con la sua arte per obbligarci alla vergogna: i grotteschi manager della Compagnia degli uomini non sono poi così diversi da noi.
Non c’è nessun diverso sul quale esportare la colpa. Non c’è nessun comunista, nessun fascista, nessun operaio assenteista al quale accollare le nostre responsabilità. Non c’è nessun facile nemico da combattere. Il nemico siamo noi stessi.

L’inverno del nostro disagio: 1961
“Now is the winter of our discontent”: così inizia il monologo che apre il Riccardo III. Con esplicita citazione shakespeariana Steinbeck, nel 1961, intitola The winter of our discontent quello che resterà il suo ultimo romanzo. E’ un amaro atto d’accusa contro il declino morale, una critica dell’american way of life. In un piccolo centro di provincia vive Ethan, discendente da una famiglia di armatori, è ridotto a guadagnarsi da vivere come commesso in una drogheria. Insoddisfatto della vita, cerca il riscatto e la ricchezza in una rapina.
E dunque il capitalismo, negli stessi anni in cui appare trionfante, ed anche in grado di garantire una crescente giustizia sociale, mostra crepe pericolose. Crepe che sono innanzitutto etiche: il mito del successo spinge a farsi beffe della legge; il consumismo pone al centro della vita il ‘tempo libero’, cosicché il lavoro appare come mera fonte di reddito, e perde senso. Si finisce così per dimenticare che il legame tra lavoro e benessere non sta solo nel denaro che il lavoro permette di guadagnare, ma sta anche nel garantire ad ognuno la possibilità di provare piacere nel proprio lavoro.
Il Welfare non è solo Stato Assistenziale, garanzia di servizi sociali e regime di tutele. E’ innanzitutto mercato del lavoro che offre ad ognuno dignitose opportunità di impiego, e quindi possibilità di mantenere viva, attraverso il lavoro, la propria dignità personale. Cosa ben diversa dal garantire opportunità di lavoro è il sussidio alla disoccupazione: se si ricorda che non c’è vita se non c’è lavoro, il disoccupato, sia o no sussidiato, è persona umiliata.
La responsabilità di trovare lavoro per sé compete ad ogni persona. Ma una responsabilità speciale cade sulle spalle della classe dirigente, e in special modo di quei componenti della classe dirigente che chiamiamo manager: a loro compete soddisfare le aspettative dei diversi portatori di interessi. Certo uno dei portatori di interessi è chi finanzia l’impresa. Ma è portatore di interessi anche il lavoratore. Eppure per la Business Ethics l’interesse finanziario merita ogni garanzia, e la scarsa o tardiva remunerazione del finanziamento è il maggior scandalo e il maggior peccato. Mentre la perdita di posti di lavoro è il male minore, il necessario sacrificio.
Quali enormi danni morali e materiali porti questo comodo andazzo è chiaro sia a Steinbeck che a Bond. Come sempre, il poeta -il romanziere, il drammaturgo- arriva prima dell’economista e del sociologo. E va ben oltre.
Così, nel Winter of our discontent di Steinbeck, il clima sociale contribuisce a far sì che Ethan si senta umiliato dal proprio ruolo di commesso. E in quegli stessi anni in Gran Bretagna, nelle periferie urbane ferite dalla carenza di lavoro, il luogo di origine di Bond e la scena di Saved, cresce il discontent. La traduzione italiana scontento è evidentemente pigra e infelice: meglio malessere, disagio. Dal malessere, dal disagio, dall’umiliazione per l’assenza di lavoro nasce la violenza.
Dalla prevaricazione della speculazione finanziaria nei confronti dell’economia produttiva nasce la disoccupazione. La disoccupazione genera rabbia, crudeltà. Impossibilitati ad oggettivare le proprie pulsioni nel lavoro, resi incapaci di desiderare in modo costruttivo, gli abitatori delle periferie urbane di Bond riversano la violenza contro se stessi, e peggio: contro i loro stessi figli. Lasciare ai figli un mondo in cui non c’è futuro, ed esercitare violenza nel presente sono due facce della stessa medaglia.

L’inverno del nostro disagio: 1978-1979
Welfare, e cioè stato sociale e democrazia industriale, tendenza alla piena occupazione, gestione del consenso, a costo, se necessario, del ricorso al debito pubblico. Perequazione dei redditi, l’orientamento ad una redistribuzione che tenga in conto il principio dell’equità sono pratiche economiche efficaci, come la storia ha dimostrato dagli anni ‘30 agli anni ‘70.
Resta quindi aperta una domanda: perché la politica economica keynesiana, considerata fino agli anni Settanta lo standard di riferimento, la via maestra capace di garantire al contempo pace sociale e sviluppo economico è considerata oggi il peggiore dei mali?
Certamente c’è di mezzo il vergognoso conformismo di economisti e politici: marxisti quando è di moda, keynesiani quando il paradigma pare indiscutibile – e infine oggi tutti liberisti. Ma non basta la piaggeria a giustificare la caduta verticale del buon Keynes, e l’ascesa conseguente dei profeti del neo-liberismo e del capitalismo anglosassone.
Bond ci è di aiuto in questo passaggio, perché la sua posizione è chiara e priva di indulgenze: non ha mai attribuito speciali virtù al keynesismo, ed è critico profondo e acuto del neo-liberismo.
Riprendiamo a seguire la storia. Bond, come Steinbeck, colgono i segni del disagio e del malessere della prima metà degli anni Sessanta. Cresce nel decennio il conflitto generazionale – ma sempre nel quadro di un mondo che vede i padri in grado di garantire ai figli un futuro, un mondo migliore. Cresce il dissenso di fronte alle contraddizioni: la guerra fredda, che raggiunge l’apice, e la guerra del Vietnam mettono in luce la necessità economica e sociale dei conflitti bellici, anche in tempi di apparente pace.
Eppure, se pur le crepe nel modello si mostravano già negli anni Sessanta, l’economia fondata sul Welfare e sulla tendenza alla piena occupazione vive ancora per vent’anni. Sicché la svolta avviene all’inizio degli anni Ottanta, con il contemporaneo avvento di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan.
Riappare qui il simbolico luogo shakespeariano. Winter of discontent è l’emblematica chiave di lettura del tempo presente, tra il dicembre 1978 e il gennaio 1979 -è veramente un inverno freddissimo, di neve come non si vedeva da anni- sui quotidiani del Regno Unito si consuma il tramonto del laburismo. Il primo ministro Callaghan è un imbelle politico di professione, disattento al mondo, incapace di cogliere discontinuità e di leggere gli umori popolari.
La sterlina è debilitata da duri attacchi della speculazione finanziaria. La permanenza nell’Unione Europea ha richiesto un lacerante referendum. Nell’Irlanda del Nord è in campo l’esercito. Ondate di scioperi tesi ad ottenere adeguamenti salariali scuotono il paese. La disoccupazione cresce senza freno. La classe politica laburista non sa dare risposte.
Nel gennaio del ‘79 Margaret Thatcher, leader del Partito Conservatore, propone restrizioni al campo d’azione delle Trade Unions. La sua fermezza e la sua durezza appare una via d’uscita.
Il 28 marzo 1979 la Camera dei Comuni nega per un voto la fiducia a Callaghan.

Gli inganni del capitalismo anglosassone
Margaret Thatcher, ancor più di Ronald Reagan, è la figura emblematica di un atteggiamento che culturale e politico prima che economico. Non solo eliminare i rami secchi e combattere la vana burocrazia, ma anche sradicare l’impalcatura dello Stato Sociale. Dare in mano ai privati ciò che è pubblico, fino a mettere in discussione quel concetto fondante della cultura anglosassone che è l’idea dei commons, ‘resources that are collectively owned’: privatizzare la sanità, l’istruzione, le stesse risorse naturali. Agire con durezza, fino a considerare la spietatezza una virtù. Tagliare le imposte ai ricchi ed i sussidi ai poveri. Considerando tutto questo la via maestra per garantire lo sviluppo per costruire una società migliore.
Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Nella democrazia industriale, l’equilibrio va cercato e mantenuto con continui aggiustamenti. Le pressioni dei diversi portatori di interessi -innanzitutto imprenditori e lavoratori-, pressioni di per sé sane, debbono trovare sempre diversi punti di incontro. Per questo serve un Governo attento ed autonomo. Serve uno Stato che detti regole, ma che sia anche disposto ad intervenire quando serve.
Nel mercato non regolato, ed in assenza di intervento pubblico lì dove serve, si assiste al trionfo del più forte, con danno di tutti. Il capitalismo anglosassone, fondato su norme minime e sulla libertà di impresa, sull’autogoverno delle grandi corporation, sulla privatizzazione dei servizi pubblici, sull’affidamento del governo delle aziende e della stessa cosa pubblica a manager, a questo ci ha portato: a subire il dominio della finanza speculativa. Il capitalismo anglosassone, insomma, non è che una foglia di fico. Invece di intervenire con ragionevolezza sui difetti delle politiche keynesiane, si è demonizzato Keynes, vendendo il nostro stesso futuro per un piatto di lenticchie.

Chi è senza peccati scagli la prima pietra
Abbiamo sotto gli occhi una incontestabile realtà: la finanza speculativa vuole per sé, e si prende, le risorse che negli anni sessanta venivano destinate alla remunerazione del lavoro produttivo. Abbiamo sotto gli occhi ciò che in cambio di questa appropriazione dà la finanza al mondo: nulla. Certo non garantiva tutto lo sviluppo possibile un sistema condizionato dalle spinte e dalle controspinte dei diversi portatori di interessi. Le disfunzioni implicite nello Stato Assistenziale sono evidenti: una certa lentezza nella risposta creativa, tendenza alla burocratizzazione, assistenzialismo che rischia di inibire l’autoimprenditorialità. Ma non ha senso contrapporre alla concrete disfunzioni dello Stato Assistenziale i teorici vantaggi del capitalismo anglosassone. Dovremmo invece confrontare lo Stato Assistenziale con la situazione di cui soffriamo, e che Bond già all’inizio degli anni Ottanta, nella Compagnia degli uomini, leggeva con durissima chiarezza: Stato assente e lavoro assente e cittadino impotente e povertà diffusa, bilanciata da enormi ricchezze e da imprenditori trasformati in speculatori.
Una classe politica conformista -che negli ultimi trent’anni ha occupato via via i Parlamenti, ma che più evidentemente si è impossessata della guida delle grandi imprese- considera suo dovere etico restar fedele ai dettami del liberismo. E si giustifica oggi con le note disfunzioni del keynesismo di trent’anni fa.
Certo un sistema economico fondato sul deficit, sul debito, pubblico o privato che sia, non è sano. Perché prima o poi il debito qualcuno lo dovrà pagare. Se quindi di questo ha peccato la cosiddetta economia keynesiana, è giusto voltar pagina. Ma dobbiamo anche dire che di questo peccato si macchia oggi chi è lontanissimo dall’economia keynesiana, anzi le si oppone. La speculazione finanziaria ha fatto del debito il proprio fondamento e la propria religione. Si impone ai cittadini di essere indebitati, si considerano i clienti indebitati i clienti migliori, si acquistano a debito imprese, si specula sul debito, con prodotti finanziari sempre più volatili e più lontani dall’economia produttiva.
Altro peccato imputato al modello economico fondato sull’intervento dello Stato nell’economia produttiva, quel modello che in Italia prende il nome di Partecipazioni Statali, è la presenza di manager collusi e disattenti agli obiettivi dell’impresa. Sicuramente i manager delle Partecipazioni Statali hanno subito in quella stagione la pressione indebita dei partiti politici. Ma non è certo un passo avanti vedere i manager prima al servizio della politica oggi totalmente subordinati agli interessi della finanza globalizzata. Alla radice della disfunzione non sta il modello, ma l’inadeguatezza delle regole e, alla base di tutto, la carenza di etica professionale.
Altro connesso peccato imputato al keynesismo è l’esclusiva attenzione al ‘breve termine’. E’ nota la frase cinica attribuita allo stesso Keynes: “nel lungo periodo saremo tutti morti”. Certamente l’etica ci impone di preoccuparci del domani. Noi che ora ci affanniamo saremo tutti morti, ma vivranno domani, si spera, i nostri figli, e continuerà a vivere, si spera, la biosfera. Un’economia che danneggia l’ambiente è riprovevole.
E’ chiaro però che sotto questo punto di vista il neo-liberismo non offre vantaggi. Una impresa costretta, per via delle aspettative dello speculatore finanziario, a garantire profitti nel brevissimo termine, è distolta dagli investimenti orientati al futuro, e dal rispetto dell’ambiente.

Lo sguardo spietato di Edward Bond
Ecco dunque il neo-liberismo osservato con lo sguardo di Edward Bond. Una inaccettabile, immorale concentrazione di ricchezze. La produzione umiliata, immiserita, resa ancella della speculazione. Lo sfruttamento al posto della produzione. L’estrazione di valore al posto della creazione di valore. La creazione sostituita dall’avidità. La vita futura sostituita dalla morte presente. Manager e imprenditori i cui vizi privati ci vengono imposti come pubbliche virtù.
Regole economiche che rendono permanente l’inverno del nostro disagio. Viviamo bloccati dal gelo emotivo, immersi in questo nebbioso inverno di solitudine e di impotenza.
Perché il dominio della finanza globalizzata, esteso a livello planetario, schiaccia le imprese produttive, schiaccia le comunità locali, e gli stessi Stati che noi stessi abbiamo contribuito a smontare. Cosicché ora per salvare le imprese e gli Stati si deve prima salvare il sistema finanziario che è la causa dei nostri mali.
Questo è in fondo il mondo post-moderno. Privi di speranza, ci attrezziamo per vivere in questo clima, convinti che non si possa far nulla per cambiarlo. Non c’è più storia, perché è il futuro è negato da un eterno presente dove il futuro, nostro malgrado, è già venduto prima che possiamo viverlo.
Qui Bond mostra la sua forza, che sta nel non deflettere, nel non concedere né tregua né i benefici del dubbio. Di fronte a questo incombente inverno Bond non demorde si ribella e ci rovescia addosso l’immagine del neo-liberismo. Una immagine che vede al centro, nel bene e nel male, la figura del manager.
Plaudiamo oggi alle gesta di manager decisionisti e mossi da ferme convinzioni. Ma dovremmo chiederci: che gloria c’è mai nel prendere per buoni i vincoli imposti dalla finanza globale, da lontani investitori istituzionali, e nel ridefinire in questo quadro il compenso che può essere riconosciuto al lavoro. E che stima dobbiamo provare per un manager che considera suo unico vero obiettivo il garantire nel breve termine un ritorno agli investitori, e che non si vergogna per l’incapacità di competere sul mercato di riferimento. Che stima dobbiamo concedere a un manager che non sa incrementare, né difendere le quote di mercato; che stima dobbiamo concedere a un manager che indirizza la produzione verso i segmenti a più basso margine, non sa migliorare la qualità e non investe nell’innovazione.
Bond ci libera dall’incantesimo, perché l’immagine del mondo che ci mostra è chiara e netta. Così, tenendosi lontano da ogni moralismo, ci riporta sulla scena primaria, lì dove si forma il nostro giudizio morale. Come nell’esperimento di Palermo, siamo esposti al vento dell’insensatezza. Sta a noi, a ognuno di noi, costruire senso osservando il mondo liberi da a-priori e pregiudizi.
Bond ci mostra manager e imprenditori nudi, spogliati dall’aura di rispettabilità che discende dal loro potere. Ci impedisce di riconoscere loro il comodo ruolo di benefattori sociali. Ci impedisce di considerare inevitabile il loro dominio e virtuoso il loro modo di agire. In questo Bond trova sostegno nella solida scuola shakespeariana. Molto meno influisce la ben più misera scuola brechtiana.
Vediamo così messa in scena, nell’estrema sintesi dell’impresa che produce armi -“dobbiamo usare tutte le armi che abbiamo, senza pietà per nessuno”-, la degenerazione di ogni impresa che misura se stessa con l’esclusiva metrica del profitto.
Vediamo smascherato il manager e l’imprenditore che dice di sé: “non mostrarti mai debole”; “sii severo con te stesso”, “bisogna essere duri”. “Dobbiamo usare tutte le armi che abbiamo, senza pietà per nessuno”.
Ci riconosciamo in questo modo di essere manager? Di fronte allo sfoggio di potere ed arroganza, restiamo affascinati. Ma davvero l’avidità è una skill indispensabile? Dall’egoismo neo-liberista nascono davvero più opportunità per tutti? Bond si guarda bene dal darci risposte. Ma questo suo mostrarci spietatamente l’immagine nuda ci porta ad immaginare. Ci spinge a pensare ad un mondo possibile.
Per questo credo si possa parlare di etica dell’immaginario. Le brutture mostrate da Bond ci spingono ad immaginare dell’altro. Il concetto di immagine, si sa, porta con sé un mistero. Non c’è accordo a proposito dell’etimo. Qualcuno scrive di un’origine che resta incerta, ma che ci appare comunque poeticamente illuminante. Immagine deriverebbe da una radice indoeuropea che sta per ‘doppio frutto’. Il nostro sguardo posato sul mondo gode anche di un doppio frutto. Guardando la bruttura, la turpitudine e l’infamia, vediamo l’altro. Soffermando lo sguardo sul mondo desolato della Compagnia degli uomini, vediamo il mondo come potrebbe essere: possiamo andare oltre le immagini che abbiamo sotto gli occhi, e tornare a immaginare l’imprenditore mosso -di fronte ad ogni vincolo e ed al di là di ogni caduta- verso una ‘risposta creativa’. E possiamo tornare a immaginare il manager come laico cercatore di un ragionevole punto di incontro tra gli interessi diversi attori presenti sulla scena. E possiamo immaginare un futuro buono per noi.

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