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di Francesco Varanini 19 Aprile 2014

Qualche anno fa il Direttore del Personale di una importante impresa italiana, uomo schivo, alieno da ogni forma di esibizionismo, ed anche poco aduso ad esprimere il proprio individuale punto di vista, mi disse che avrebbe partecipato come relatore ad uno dei nostri incontri di Risorse Umane & non Umane, e questo per un solo motivo: ci proponevamo di parlare di ‘giusta remunerazione’. Mi espresse quindi, in un colloquio privato, la sua opinione: la forbice retributiva, il divario tra manager e semplici operai e impiegati aveva raggiunto misure eticamente inaccettabili, e socialmente pericolose.

Questo episodio mi fece venire in mente una storia di un’altra grande azienda: un professionista dell’area Information Technology diffondeva presso i colleghi, all’insaputa della Direzione del Personale, i dati relativi alle remunerazioni degli alti dirigenti. Di fronte a certe voci leggendarie sulle retribuzioni dei manager, voci che comunque circolavano nei corridoi di quella azienda, i dati forniti da quel professionista costituivano in fondo un deterrente, un costruttivo aggancio alla realtà.

La storia cui ora accenno è più recente: un Direttore del Personale è propenso a lasciare l’incarico che ricopre. I motivi: vede attorno a sé rendite di posizione che ritiene ingiuste, considera certe pretese degli azionisti dannose per la vita presente e futura dell’impresa. Ma questo manager, che pure vorrebbe andarsene, non se ne va, perché una pressante convenienza lo trattiene: deve prima incassare un premio corrispondente ad un significativo multiplo della sua già ottima remunerazione annua. Si tratta, va precisato, di un premio non legato alla sua attività, né legato all’attività produttiva dell’impresa, ma legato invece a mere speculazioni finanziarie.

Ancora una storia di questi giorni: un formatore free lance di grande esperienza viene contattato per un intervento orientato alla motivazione di un gruppo di quadri intermedi. Si concordano le modalità dell’intervento, i metodi ed i tempi. Per ultima cosa si parla della remunerazione. Il formatore ha già lavorato per quell’impresa, ed esiste uno standard di compenso consolidato del tempo. La sorpresa del formatore è grande quando gli viene proposto un compenso notevolmente più basso del consueto. Motivazione: si tratta di persone alle quali si sta proponendo l’uscita dall’azienda. La formazione fa parte dell’incentivo. Ma il budget destinato a queste persone è limitato. Perciò il formatore stesso, antico e fedele collaboratore, gran conoscitore dell’azienda, è posto di fronte all’aut aut: in compenso è questo, prendere o lasciare.

Sto parlando di ‘giusta remunerazione’. Ma in senso più stretto sto parlando di denaro. Possiamo fare tanti bei discorsi sulla remunerazione immateriale. Possiamo ben parlare dell’importanza dei benefit non monetari, del welfare e del clima di lavoro. Ma nella società in cui viviamo il denaro effettivamente messo in tasca non solo è necessario alla vita quotidiana; è, da un punto di vista simbolico, il primo criterio di valutazione; la prima misura sociale del nostro valore; il più evidente, imprescindibile criterio di giudizio.

La situazione economica complessiva impone oggi bassi salari di ingresso ai giovani che hanno la fortuna di entrare nel mercato del lavoro. Operai e impiegati e quadri e dirigenti di fascia bassa vedono compresse e bloccate nel tempo le proprie retribuzioni. Gli stessi compensi di tutti i professionisti di cui è testimone esemplare il formatore sopra citato non sono più quelli di una volta.

I manager di vertice, ed in particolare i Direttori del Personale, si trovano a chiedere sacrifici ai propri dipendenti e collaboratori. Come possono essere credibili?

Una assoluta trasparenza è necessaria. Bisogna dire chiaramente perché si chiedono i sacrifici. Bisogna dire dove stiamo andando. Bisogna spiegare perché si sta facendo questo è quello. Bisogna inventare modi per spostare risorse verso la remunerazione del lavoro. Si deve anche, credo, essere assolutamente trasparenti a proposito della propria retribuzione.

Ma forse questo non basta. Se nessuna limita la nostra retribuzione; se la finanza speculativa -lo stakeholder che spesso è, nella grande azienda, il vero pagatore del manager- non pone limiti, o anzi alza il compenso, il manager è chiamato ad autolimitare la propria remunerazione. Se la forbice retributiva continua ad allargarsi, qualcuno dovrà pure compiere gesti che invertano la tendenza. Quando il manager chiede sacrifici a chi lavora, è credibile solo se impone a se stesso sacrifici misurabili in denaro.

Solo così si ridurrà l’apertura della forbice, che è sociale, politica ed etica. Le eccessive retribuzioni di pochi sono uno scandalo che demotiva i molti. Non a caso quello che sto dicendo guardando alla grande impresa, nella piccola impresa è già accaduto. Per il piccolo imprenditore, mantenere la propria retribuzione commisurata a quella dei lavoratori è una cosa ovvia; una prassi consolidata. Anche i grandi manager sono chiamati a fare la loro parte.

Questo testo appare come Editoriale sul numero 95, aprile 2014, di Persone & Conoscenze.

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